Dopo averlo visto con una ragazza molto più giovane, lei non fece scenate: restò impassibile e, cinque giorni più tardi, gli servì una sorpresa che non avrebbe mai previsto.

Marina non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi così. “Belouga” — lo stesso ristorante dove Viktor, trent’anni prima, le aveva infilato un anello al dito — era diventato il luogo in cui lui intrecciava le mani con un’altra. Dalla vetrata, al riparo delle tende color avorio, Marina lo vide ridere piano, le dita unite a quelle di una bionda dall’aria fresca, non più di venticinque anni.

«Sei speciale», mormorò Viktor, con una voce che all’improvviso le parve di uno sconosciuto.

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La ragazza inclinò il capo, sorriso malizioso, fossette perfette e una manicure da rivista che gli sfiorava il polso.

«E tua moglie?» chiese con un sopracciglio alzato.

«Marina?» fece lui, liquidando il nome con un gesto. «È tutta presa da fiori e serie TV. A una certa età…» Lasciò la frase sospesa. Il senso colpì più duro di qualsiasi parola.

Il nodo in gola arrivò di colpo. Trent’anni, tre figli, cene, ricorrenze, discussioni e riappacificazioni: un’intera vita ridotta a una scrollata di spalle. Per un attimo Marina ebbe l’impulso di piombare dentro, rovesciare un calice, urlare. Ma la fermò un vecchio istinto di compostezza, la disciplina imparata in anni di “ci penso io”.

Tornò a casa come in automatico. Mise l’acqua per il tè, si lasciò cadere sulla poltrona e lo sguardo cadde su una cartella dimenticata nell’armadio: firme accumulate negli ultimi cinque anni, “solo formalità per l’ottimizzazione fiscale”, diceva Viktor. Una dopo l’altra, le pagine rivelarono la verità: casa, residenza di campagna, tre concessionarie, una catena di ristoranti — tutto a nome di Marina. Per timore di controlli, lui aveva spostato i beni su di lei, certo che sarebbe stata per sempre docile e leale.

Le scappò un sorriso amaro. Non solo orchidee e torte: negli anni, dall’ombra, aveva seguito conti, fornitori, margini. A mezzanotte, asciugate le lacrime, la disperazione lasciò spazio a una lucidità fredda. Prese l’agenda. Si diede cinque giorni.

Giorno 1. Telefonò a Elena Sergeevna, avvocatessa di famiglia, una che non perde tempo in preamboli. Mentre Elena scorreva i documenti, Marina tamburellava sul bracciolo.

«Complimenti,» disse l’avvocatessa infine. «L’assetto è chiarissimo: l’azienda è sua. E la procura che consente a Viktor di firmare per lei può revocarla adesso.»

Marina guardò le foglie d’autunno danzare dietro il vetro. Trent’anni da moglie impeccabile: era ora di tornare impeccabile per sé stessa.

Quella sera Viktor rientrò tardi, addosso il profumo di vini importanti. La cena era pronta.

«Sei diversa stasera,» notò, scrutandola.

«Solo stanca,» sorrise lei. «Domani non contare su di me per cena. Ho un’uscita con le amiche.»

Lui annuì distratto, già immerso nel telefono, un sorriso che le spiegò più di mille spiegazioni.

Giorno 2. Banche, firme, code, numeri di pratica. Dove i conti erano cointestati, Marina ripulì le acque torbide con trasferimenti puliti. Entro sera, buona parte della liquidità era al sicuro.

«Vuole lasciare una riserva?» chiese la direttrice dell’ultima filiale.

«No. Trasferite tutto.»

Rientrando trovò un mazzo di rose rosse. Un gesto vecchio, di quelli che lui usava per coprire le crepe. Le fece solo sorridere senza gioia.

Giorno 3. Incontro con Mikhail Petrovich, ex socio.

«Vuole davvero cedere le concessionarie?» domandò incredulo.

«Ora è il momento. Il mercato è favorevole.»
In poche ore, accordi firmati e protezione finanziaria consolidata. Nessun colpo di testa, solo scelte ponderate.

Giorno 4. Notai, registri, timbri. Una pila di firme con le mani che tremavano appena.

«È sicura?» chiese la notaia, alzando gli occhi.

«Completamente.»
All’agenzia immobiliare, il maniero di famiglia passò ufficialmente a suo nome. Poi l’ultima tessera: l’atto di sfratto.

«È suo marito…» azzardò il giovane legale.

«Il mio ex marito,» corresse Marina. «Ha sette giorni.»

Giorno 5. Mattina in salone: taglio, piega, trucco leggero. Abito nero che cadeva perfetto. Alle sette, il messaggio di Viktor: «Stasera Belouga. Dobbiamo parlare.»

«Volentieri,» rispose.

Al ristorante, lui ostentava sicurezza. Ordinò il suo vino preferito, cercando di dettare i tempi come sempre. Marina appoggiò una valigetta sul tavolo e la aprì: domanda di divorzio, revoca della procura, bilanci, cessioni, notifica di sfratto.

L’espressione di Viktor si incrinò. «Che… cos’è questa pagliacciata?»

«Chiarezza,» disse lei. «Ah, e già che ci siamo: cinque sere fa, a questo stesso tavolo, eri con la tua nuova scoperta.»

Lui sbiancò. «Ti stai inventando tutto.»

Marina porse la penna. «Firma.»

«Non puoi farmi questo!» scoppiò. «Mi stai lasciando senza un soldo!»

La porta si aprì: la bionda fece un passo dentro, attratta dalle voci. «Senza un soldo?» ripeté piano. Si bloccò. Uscì senza salutare.

«Pare che la tua musa preferisca uomini… solvibili,» disse Marina, senza alzare la voce.

«Ti denuncerò!»

«Per cosa? Per aver gestito ciò che tu stesso mi hai intestato? Perché hai mentito e tradito? Porta il conto, grazie.»

L’indomani i messaggi si susseguirono. «Parliamone.» «Scusami.» «Stai esagerando.» La voce di Viktor al telefono tremava.

«Non c’è più nulla da dire,» rispose lei, e riagganciò.

La madre la chiamò a sua volta, tra rimprovero e apprensione: «Come hai potuto? Viktor ti vuole bene.»

«Trent’anni di “bene” mi hanno insegnato a vedere chi è davvero,» disse Marina con calma.

Si regalò una spa, poi un caffè con un’amica. «Dicono tutti che hai sfrattato Viktor,» sussurrò l’amica, occhi sgranati.

«Non ancora. Ha cinque giorni.»

«Come hai trovato il coraggio?»

«A volte basta un istante per aprire gli occhi. Quella ragazza ha l’età di nostra figlia. E non era la prima volta.»

«Ti invidio. Io non ce la farei.»

«Quando arriva il momento, lo trovi. Bisogna ricordarsi che si merita di più.»

A casa, qualche cassetto svuotato: lui era passato a prendere effetti personali. Il suo profumo rimasto sul comò era diventato dolciastro fino alla nausea. Marina spalancò la finestra. Aria nuova.

Giorno 7. Alla porta comparve la bionda. Senza trucco, senza armature di marca, sembrava un’altra.

«Posso entrare? Mi chiamo Alina.»

Marina le offrì una sedia.

«Non sapevo fosse sposato,» disse la ragazza, arrotolando un fazzoletto tra le dita. «Mi ha mentito. Sono venuta a chiederti scusa… e a dirti che è fuori di sé. Vuole contestare tutto.»

«Che ci provi pure,» rispose Marina. «Ho firme, date, testimoni. Sono pronta.»

Alina abbassò lo sguardo. «Vorrei essere forte come te.»

«Lo diventerai quando servirà. Ricordati: non accontentarti delle briciole.»

Quando Alina se ne andò, la casa sembrò più grande. Quella settimana le era scivolata addosso come un anno intero, eppure respirava meglio.

La sera chiamò la figlia da Londra. «Mamma, ho saputo. Domani prendo il primo volo.»

«Non serve, tesoro. Ce la faccio.»

«Lo so che sei forte. Ma voglio esserci.»

Le lacrime arrivarono stavolta leggere, quasi liberatorie. «Perdonami se non ho visto prima quanto stavi male.»

«Andrà bene, mamma. A volte bisogna attraversare il dolore per diventare acciaio.»

Sul letto, una busta. Due parole di Viktor: “Te ne pentirai.” Marina lacerò la carta e la gettò nel cestino. Nessuna minaccia poteva più farla vacillare.

Nel riflesso dello specchio non vide più una moglie accomodante, ma una donna in piedi, le spalle dritte, lo sguardo chiaro. Non c’era trionfo, solo pace. Una vita nuova bussava. Questa volta avrebbe aperto la porta per sé.

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