«Non m’interessa cosa ne pensi. Questa casa è mia, solo mia. Tu ci hai trascinato dentro una sconosciuta e ora vorresti farla passare per la padrona?»
«Katja, ti prego, abbassa la voce…» Artem gettò un’occhiata al corridoio. «Il bambino ti sente. Capisce tutto.»
«E da quando gli chiediamo un parere?» ribatté lei, indicando la stanza da cui uscivano i suoni dei cartoni. «Chi le ha dato il permesso di stare qui? Potevi almeno avvisarmi che si sarebbero trasferiti!»
Ol’ga, di spalle al lavello, strofinava una tazza. Non replicava, non se ne andava. Ogni gesto misurato, intenzionale.
«Katja, proviamo a parlarne con calma…» tentò Artem.
«No.» Lo troncò secca. «Tu non mi chiedi proprio niente. Te ne stai zitto mentre qui si rovescia tutto: buttano le mie cose, spostano i mobili, i miei vestiti spariscono dall’armadio. Sarebbe così che si risolvono i problemi?»
«Ti avevo detto che sarebbero rimasti comunque» borbottò. «Non è arrivato dal nulla.»
«Avevi detto “un paio di giorni”.» Katja serrò i pugni. «Adesso lei si comporta come se fosse casa sua. Ti sembra normale?»
Ol’ga si voltò piano. «Magari basta spettacoli in cucina, eh? Siamo adulti. Se c’è qualcosa che non va, lo discutiamo senza urlare.»
«Senza urlare?» Katja rise amaramente. «Sei entrata e hai fatto come ti pareva. E io dovrei tacere?»
«Io sono entrata?» Alzò un sopracciglio. «La decisione l’ha presa tuo fratello. O vuoi dire che non è capace di decidere da solo?»
Katja guardò Artem. Lui deglutì, abbassò gli occhi, come se sul pavimento ci fosse la risposta.
«Hai solo approfittato del suo bisogno di un tetto» sussurrò Katja. «È tutto qui.»
«Questo è già un insulto» replicò calma Ol’ga. «Se vuoi restare qui, impara a parlare senza offendere.»
Calò un silenzio pesante.
«Forse dovresti andartene tu per un po’» disse Artem, senza alzare lo sguardo. «Sei sempre arrabbiata.»
Katja sbiancò. «Cosa hai detto?»
«Sei sempre furiosa. Ti schiaccia tutto. Stare da sola magari ti fa bene…»
Lei lo fissò incredula, come se in un istante le avessero strappato il mondo da sotto i piedi. «Vuoi buttar fuori me… dalla mia casa, Tëma?»
«Non ti butto fuori… Io solo…»
«Mamma non ti riconoscerebbe» mormorò.
«Non ricominciare con la mamma» sbottò lui.
«Chi si è preso cura di te, quando non avevi un soldo per mesi? Chi ti comprava da mangiare? Io? O lei?»
«Io non ho chiesto…»
«Già. Tu non chiedi mai. Taci e lasci che gli altri facciano. Adesso hai trovato lei al mio posto e pretendi che io mi faccia da parte?»
«Basta» intervenne Ol’ga. «Non siamo tenuti a reggere le tue scenate. Ne parleremo quando ti sarai calmata.»
Allora Katja afferrò la sua tazza preferita — vecchia, con un disegno di lillà ormai sbiadito — e la scagliò nel cestino. Il tonfo rimbombò nella cucina.
«Quando mi sarò calmata?» ripeté. «Questa è casa mia. Benissimo. Ne parleremo.»
Si alzò, uscì nel corridoio, infilò il cappotto, gli stivali, e chiuse la porta dietro di sé.
Fuori il cielo era di piombo e cadeva una neve sottile che pungeva la pelle. Katja rimase sulla soglia del palazzo a tremare, il respiro corto, la mente vuota.
Alzò lo sguardo verso le finestre. No: non era più casa sua.
Ora, lì dentro, lei era soltanto… la padrona di casa. Ma non la proprietaria.