Vadim entrò nella sala riunioni con la solita sicurezza addosso, come un cappotto cucito su misura. Completo perfetto, sguardo rapido e tagliente, la mente già avanti di tre mosse. Per lui era sempre la stessa liturgia: tavolo lungo, legno pregiato, marmo che rifletteva le luci fredde, profumo di caffè appena fatto per uomini convinti di stringere il mondo in un pugno. Slacciò la giacca con un gesto abituale, pronto a prendere posto a capotavola — il punto da cui partono le decisioni e cambiano i destini.
Poi lo sguardo gli scivolò verso la vetrata. E si fermò.
Lì, davanti al vetro, c’era una donna ritagliata contro lo skyline, netta come una linea d’inchiostro su carta grigia. Tailleur sobrio, taglio impeccabile. Capelli raccolti in uno chignon disciplinato, nessun filo fuori posto. Schiena dritta, passo misurato, una presenza che non chiedeva permesso. Per un istante sembrò un’estranea. E subito dopo, fin troppo familiare.
Un lieve movimento del capo, quasi impercettibile. E quel piccolo neo alla base del collo — un punto nero che gli spalancò la memoria come una ferita.
Il cuore di Vadim ebbe uno strappo. Non paura. Non rabbia. Qualcosa di più antico: la certezza che il passato non fosse morto, si fosse soltanto nascosto in silenzio.
Lena.
Il nome gli attraversò il petto come ghiaccio. Rimase bloccato sulla soglia, come se il parquet si fosse trasformato in colla. Nel promemoria della riunione c’era scritto soltanto “rappresentante del cliente”. Nessun nome, nessun avviso. Solo lei. E lui.
Si voltò.
Gli occhi si incastrarono. Non da amanti, non da nemici. Da due sconosciuti che si incontrano nel punto esatto in cui il destino decide di fare il conto. Nei suoi non c’erano lacrime, né pena, né rimproveri. Solo un vuoto pulito, lucido come un lago d’inverno: nessuna onda, nessuna eco.
Un cenno educato. Una distanza chirurgica. Proprio quella che lui insegnava ai suoi: niente di personale, solo lavoro. E quell’aplomb gli fece più male di un urlo, perché non conteneva nulla. Era definitivo.
La trattativa cominciò.
Vadim si ricompose in fretta: cartella in mano, colpo di tosse, voce stabile su scadenze, cifre, strategie. Ma dentro avvertiva una nota stonata, come se parlasse qualcun altro con la sua bocca. Non ascoltava davvero: la osservava. Cercava, ostinato, una traccia della Lena di un tempo — quella dolce, fragile, con lo sguardo fiducioso e quel sorriso che tremava quando lui entrava in una stanza. Quella che lo guardava come se fosse casa.
Davanti a lui, invece, sedeva un’altra donna. Forte. Inaccessibile. Fredda senza essere crudele.
Poi parlò lei.
La sua voce era calma, rotonda, precisa; ogni sillaba cadeva netta, come metallo su vetro. Diritto, condizioni di mercato, crepe nella sua posizione. Nessuna esitazione. Nessuna emozione. Una scacchiera già risolta nella testa.
E insieme, in Vadim, si accese un’altra stanza della memoria.
Risentì lo scricchiolio della porta di quel monolocale in periferia dove lei era finita dopo il divorzio. Rivide le pareti spoglie, il vuoto che faceva rumore. Rivide la sua domanda spezzata: “E io? Dove vado? Non ho niente…” E ricordò la propria risposta, secca, dall’alto: “Te la caverai. Ci pensano gli avvocati. Non fare drammi.”
Quella stessa donna — un tempo incrinata — ora smontava le sue argomentazioni con una geometria glaciale. Sapeva tutto. Non perché avesse letto un fascicolo, ma perché conosceva lui: le sue tattiche, il modo in cui spingeva, le debolezze che nascondeva dietro il controllo. Lo aveva vissuto. Lo aveva amato. E aveva imparato. Poi, da qualche parte, aveva studiato ancora. Per arrivare a quel tavolo e dirgli, senza dirlo: mi hai lasciata senza un tetto, ma non mi hai spezzata.
Provò a ribattere. Esitò. E la colse mentre, per un attimo, il suo sguardo scivolava sul suo polso: l’orologio svizzero comprato il giorno della firma che gli aveva dato la carriera e gli aveva strappato il matrimonio. La corona che si era messo in testa credendo di aver vinto.
Il silenzio si addensò. Qualcuno tossì, teso.
Lena non sorrise, non trionfò. Inclinò appena il capo, come davanti a un’ultima mossa inevitabile.
«Vedo una contraddizione centrale» disse con tono neutro. «Chiedo tempo per analizzare le ultime proposte, signor Orlov.»
Lo chiamò per cognome. Fredda, impeccabile. Come se tra loro fosse esistita soltanto carta firmata, non un letto condiviso. Come se quelle lacrime sulla sua spalla non fossero mai state reali.
Vadim annuì. La voce gli rimase incastrata in gola. E capì di aver perso. Non solo l’accordo.
Il punto non era il contratto. Era ciò che aveva intravisto: non una vittima, ma qualcuno passato tra le fiamme e uscito temprato. Non un grido, ma un silenzio affilato in cui il loro passato affondava e spariva.
Quando si alzò, le gambe gli sembrarono di piombo. Uscì dalla sala come si esce da una battaglia: nessuna ferita visibile, un’emorragia dentro. Il vetro e l’acciaio intorno — conti, proiezioni, status — avevano preso una crepa sottile. E da quella crepa entrava un vento gelido di memoria.
Il resto della giornata gli scivolò addosso come un funerale muto. Il whisky non colmò niente. Le chiamate suonarono vuote. Le stanze che fino al giorno prima erano un tempio del successo gli apparvero come un museo di illusioni.
Davanti al computer, quasi per caso, inciampò in un’intervista.
“Essere a zero. Non nei soldi — nell’anima. Quando ti sembra di non servire a nessuno. E l’unica via è ricominciare. Con un solo obiettivo: restare umano.”
Chiuse gli occhi. Quelle parole lo colpirono più di qualunque clausola.
Restare umano. E lui, che cosa gli era rimasto?
Composè il numero.
— Sì?
— Lena… sono io.
— L’ascolto, signor Orlov.
Quel “signor Orlov” punse più di un’accusa. Avrebbe voluto dire: perdonami. ero cieco. ho sbagliato. Ma gli sarebbero uscite addosso come monete false.
— Complimenti. Sei stata impeccabile.
— Era lavoro.
Un silenzio breve, teso.
— L’appartamento… l’ho passato a tuo nome.
— Non serve, Vadim. — Per la prima volta, nella sua voce passò un’ombra di stanchezza. — Io ho una casa mia. Me la sono guadagnata. Non chiamarmi più. Mai.
Click. Linea libera. Un suono secco, come una porta che si chiude senza ritorno.
E Vadim capì che alcune cose non si riparano. Non si ricomprano. Non si intitolano. Non si restituiscono.
L’unica possibilità era camminare avanti. Con il peso addosso. Senza scuse. Senza aspettative. Solo andare.