«Che cos’è un bambino senza radici? Un niente. Un’ombra a cui il destino ha concesso soltanto un corpo.»
«Quindi ti sei sentita sempre così? Un’ombra?» chiese Mikhaïl, mentre rigirava il cucchiaino nel caffè, seduto nella mia cucina impeccabile.
Lo guardai dritto negli occhi. Era l’unico amico che sapesse tutto di me, quello che mi aveva aiutata a scoperchiare la verità: la donna che mi aveva messa al mondo e poi scartata come un disegno riuscito male.
Il mio primo vagito non aveva incrinato il suo cuore. Di me, i genitori che mi trovarono conservarono solo un bigliettino appoggiato su una coperta lisa: “Perdonami”. Quella parola era tutto ciò che avevo ricevuto da colei che si faceva chiamare madre.
Ludmila Petrovna e Gennadi Sergueievič, una coppia anziana senza figli, mi scoprirono una mattina d’ottobre: un fagottino vivo che piangeva sull’uscio. Ebbero la decenza di non spedirmi in orfanotrofio, ma non abbastanza amore da adottarmi davvero.
«Questa è casa nostra, Alexandra. Ricorda: noi restiamo estranei e tu lo sei per noi. Facciamo solo ciò che è giusto per degli esseri umani», ripeteva ogni anno Ludmila, nel giorno in cui – come un trofeo sgangherato – ricordavano di avermi “trovata”.
Quel loro appartamento si trasformò nella mia cella. Mi assegnarono un angolo del corridoio, un lettino pieghevole e poco più. Mangiavo da sola, dopo di loro, rastrellando i resti ormai freddi. I vestiti venivano dal mercatino: sempre troppo grandi. «Crescerai», diceva lei. Peccato che, quando mi andavano bene, fossero già slabbrati e rattoppati.
A scuola ero il bersaglio preferito. “La trovatella”, “la vagabonda”, “l’orfanella”, sussurravano. Non piansi mai. Perché? Perché accumulavo forza. Ogni insulto era benzina. Ogni spintone, una promessa. Ogni sguardo di ghiaccio, un gradino.
A tredici anni iniziai a lavorare: volantini, cani da portare a spasso. Nascondevo le monete sotto le assi. Un giorno, mentre puliva, Ludmila le trovò.
«Rubacchi?» mi sventolò in faccia le banconote stropicciate. «Lo sapevo, il marcio non cade lontano dall’albero…»
«Sono miei. Li ho guadagnati», dissi.
Buttò i soldi sul tavolo. «Allora da oggi paghi vitto e alloggio. Sei grande abbastanza.»
A quindici anni ogni minuto libero era lavoro. A diciassette superai il test per un’università in un’altra città. Partii con uno zaino e una scatola: dentro, una sola foto scattata da un’infermiera, prima che mia madre biologica mi lasciasse in ospedale.
«Non ti amava, Sasha», mi disse Ludmila salutandomi. «E nemmeno noi. Ma almeno siamo stati sinceri.»
In dormitorio dividevo la stanza con altre tre ragazze. Pranzi e cene: noodles istantanei. Studiavo fino a sfinirmi: volevo la borsa di studio, la mia uscita di sicurezza. Di notte facevo i turni in un minimarket. Le compagne ridevano dei miei vestiti consunti; io ascoltavo solo la voce dentro: “La troverai. Le farai vedere cosa ha perso.”
C’è una sensazione peggiore di tutte: sentirsi inutili. Ti entra sotto pelle come una scheggia che non guarisce mai. Giocherellavo con una catenina d’oro – il mio primo regalo a me stessa, dopo il primo progetto serio. Mikhaïl conosceva già tutto: aveva rintracciato mia madre e insieme avevamo messo a punto un piano.
«Sai che questo non ti darà pace?» chiese.
«Non cerco pace. Cerco una fine.»
La vita è strana: apre spiragli dove meno te lo aspetti. Al terzo anno, il professore di marketing ci affidò una strategia per un brand di cosmetica bio. Rimasi sveglia tre notti, buttando nel progetto rabbia e voglia di riscatto. In aula cadde il silenzio. Una settimana dopo, il professore entrò elettrico: «Sasha, degli investitori di Skolkovo vogliono incontrarti.»
Non mi pagarono, ma mi offrirono una piccola quota. Firmai con la mano che tremava. Un anno e la start-up decollò: quella quota diventò un numero che non avevo osato sognare. Bastò per un anticipo su un appartamento e per lanciare altri progetti. La ruota prese a girare: da un investimento, due; poi cinque.
A ventitré anni comprai un appartamento in centro. Entrai con lo zaino e la solita scatola con la foto. Nessun resto del passato: solo una partenza nuova.
«Pensavo che il successo bastasse», confidai a Mikhaïl a una conferenza. «Invece amplifica la solitudine.»
«I fantasmi ti seguono ovunque», rispose lui, dicendo quello che non riuscivo ad ammettere.
Gli raccontai tutto. Mikhaïl non era solo un amico: era un investigatore privato. Due anni di piste sbagliate. Poi, finalmente, un nome: Irina Sokolova. Quarantasette anni. Divorziata. In un palazzo scrostato in periferia. “Senza figli”, c’era scritto nel fascicolo. Quella riga mi fece male fisicamente. Nella foto, un volto stanco. Negli occhi niente scintilla.
«Sta cercando lavoro», disse Mikhaïl. «Donna delle pulizie. Confermi?»
«Confermo.»
Il piano era semplice: Mikhaïl pubblicò un annuncio per una governante e fissò il colloquio a casa mia. Io guardavo da una telecamera.
«Ha esperienza, Irina Michajlovna?» chiese, neutro.
«Sì», rispose lei, tormentandosi le unghie spezzate. «Hotel, uffici. Sono precisa.»
«La padrona è esigente: pulizia impeccabile, puntualità.»
«Capisco. Ho davvero bisogno di questo lavoro.»
C’era una nota spezzata nella sua voce, come un disco rigato. La sua sottomissione mi dava la nausea.
«La assumo in prova», concluse lui.
Da sola presi in mano il suo passaporto, lasciato per la fotocopia. Il documento di chi mi aveva dato la vita e tolto l’amore.
«Vuoi davvero farlo?» mi domandò Mikhaïl.
«Più che mai.»
Una settimana dopo Irina entrò in casa mia con secchio e straccio. Per la prima volta ci sfiorammo: io finsi urgenze e telefonate. Lei abbassò lo sguardo, già pronta al licenziamento. Sentii una soddisfazione fredda.
Per due mesi fu un’ombra pulita: odore di candeggina al limone e ordine perfetto. Otto volte, otto occasioni per studiare ogni gesto, ogni sospiro. Le lasciavo mance non per pietà, ma per farla tornare. Per prolungare il gioco.
Parlavamo appena. Io ero sempre “impegnata”. Ma la vedevo soffermarsi sulle mie foto di viaggio, sui trofei, sul ritratto davanti alla Tour Eiffel. E la vedevo guardarmi, come se cercasse qualcosa nel mio viso – un’eco forse.
Una sera Mikhaïl osservò: «La stai facendo soffrire. E ti stai ferendo anche tu.»
Forse aveva ragione. Ma ero in corsa: non sapevo fermarmi.
Ogni volta che Irina usciva, riprendevo la foto della mia nascita e chiedevano occhi chiusi: perché? Cosa c’era in me di tanto sbagliato?
La risposta arrivò quando la vidi fermarsi davanti alla libreria del mio studio. Sfiorò una cornice d’argento: la mia foto di laurea. Le sue dita screpolate tremarono.
«Hai trovato qualcosa di familiare?» domandai entrando.
Sussultò, come sorpresa a rubare.
«Alexandra Gennad’evna… stavo solo spolverando…»
Le luci negli occhi erano lacrime trattenute.
«Hai gli occhi lucidi», constatai.
Si asciugò in fretta con il bordo del grembiule. «Polvere…»
Mi sedetti alla scrivania. «Si accomodi», dissi con voce chirurgica.
Lei si posò appena sulla poltrona, smarrita in quel regno lucido.
«Ha visto qualcosa di familiare?» insistetti piano.
Il mio cuore si fece pietra.
«Irina Michajlovna, venticinque anni fa una donna lasciò una neonata su una soglia, con un biglietto: “Perdonami”. Quella bambina ero io. Guardi qui. Guardi me.»
Alzò lo sguardo, sbarrò gli occhi, si coprì la bocca per non singhiozzare.
«Non può…» mormorò.
Aprii il cassetto, posai la foto sul tavolo.
«Mi hai tenuta sveglia per anni. Ho sognato mille volte di chiederti perché. Perché non meritavo neppure una prova?»
Le si spezzò il volto, cadde in ginocchio accanto alla scrivania.
«Ero giovane. Il padre scappò quando seppe della gravidanza. I miei mi cacciarono. Ero sola, senza soldi né tetto. Pensavo di morire, e con me…»
«Hai pensato di liberarti di me», la interruppi.
«Ho creduto che fosse meglio. Che qualcuno ti avrebbe dato ciò che io non potevo: casa, cibo, amore.»
Sorrisi amaro. «Amore? Sono cresciuta senza.»
Le lacrime le scendevano a righe. Allungò la mano, ma non ebbe il coraggio di toccarmi.
«Ho pensato a te ogni giorno. Ogni giorno, per venticinque anni.»
«Eppure non mi hai cercata», sibilai.
«Sì. Tornai un anno dopo. Mi dissero che non ti avevano trovata. Ho creduto…»
«Che fossi finita in orfanotrofio. E hai smesso di cercare.»
Abbassò la testa, scossa dai singhiozzi. «Perdonami… se puoi. Lasciami almeno…»
«Lasciarti cosa?»
«Starti vicino. Conoscerti. Anche solo come donna delle pulizie. Non mandarmi via.»
La guardai: spezzata, consumata dalla vita e dalle sue scelte. E all’improvviso sentii qualcosa sollevarsi dal petto, come se togliessero peso a un gancio.
«No», dissi piano. «Non voglio punirti. E non ho nulla da perdonare. Tu allora hai scelto. Io scelgo adesso. Ti lascio andare. E io mi libero.»
Mi alzai e raggiunsi la finestra. La città fuori pulsava di rumori e promesse.
«Mikhaïl ti accompagnerà. Grazie di non tornare più.»
Quando richiuse la porta, rimasi con il telefono in mano. Sullo schermo: “Contatto bloccato”. Appoggiai davanti a me la foto.
«Ce l’hai fatta», sussurrai. «Da sola.»
Due giorni dopo sbloccai quel numero. La chiamai. Le chiesi di incontrarci. Di riprovare.
Avevo lasciato scorrere via il veleno, avevo guardato il suo abisso e il mio. E, per la prima volta, provai a immaginare il nome di quella parola: perdono.