Quando ho deciso di andare a trovare mia suocera “malata”, volevo solo alleggerire un po’ mio marito Jakov, che ormai sembrava distrutto dalle continue visite. Mi aspettavo frecciatine, qualche occhiata storta, magari un commento velenoso. Ma mai, neanche per un secondo, avrei immaginato ciò che stavo per scoprire.
Perché Ljudmila non era affatto malata. E la verità che mi ha detto quel giorno ha fatto crollare tutto ciò in cui credevo.
Se Jakov non passava davvero le serate con lei… allora dove diamine andava?
Io e lui eravamo sposati da sei anni. Non era un matrimonio da favola, ma chi può dire di averne uno? Pensavo però che il nostro fosse stabile: una casetta accogliente, piena di risate, piccoli rituali solo nostri anche nei periodi più grigi. Jakov lavorava nel reparto IT di un’azienda medica, rientrava spesso tardi, ma non avevo mai sospettato nulla. Fidarmi di lui mi veniva naturale, come respirare.
Quando mi disse che sua madre aveva iniziato a stare male e che aveva bisogno del suo aiuto ogni giorno, non mi venne neanche in mente di dubitare. Lui era sempre stato il “figlio d’oro”, il suo punto fermo. Io lo ammiravo per quella cura che le dedicava.
Ogni sera, dopo cena, prendeva la sua borsa, mi sfiorava la fronte con un bacio e sussurrava:
«Vado da mamma, torno presto, amore».
Mi raccontava di cene preparate al volo, di lavatrici fatte in fretta, di medicine da controllare. Qualche volta rientrava oltre mezzanotte.
«Devo assicurarmi che stia bene», ripeteva. «Ha sacrificato tutto per me, è il minimo che possa fare».
Lo vedevo spegnersi: occhiaie profonde, spalle incurvate, passi lenti. Una sera è praticamente crollato sul divano, senza neanche togliersi gli stivali. In quel momento ho deciso che bastava: sarei andata io da sua madre. Avrei cucinato qualcosa, portato le medicine, magari un dolce, dei fiori. Così lui avrebbe potuto finalmente riposare.
Solo che, quando ho suonato alla porta, non mi sono trovata davanti una donna malandata e provata dalla malattia.
Mi sono trovata davanti Ljudmila in un tubino nero elegantissimo, i capelli freschi di piega dal parrucchiere, il viso truccato alla perfezione, le unghie curate e brillanti. Io, con le buste della spesa in mano, mi sono sentita ridicola.
«Carolina? Ma che sorpresa!», ha esclamato, davvero stupita.
Quando le ho detto che ero lì perché Jakov mi aveva parlato della sua salute precaria, l’ho vista impallidire.
«Malata… io? Tesoro, ci dev’essere un errore. Io Jakov non lo vedo da tre mesi».
In quell’istante ho sentito un gelo salirmi dalla pancia alla testa.
Perché io, ogni singola sera, vedevo mio marito uscire di casa. Ogni singola sera mi diceva che andava da lei.
Se non stava con sua madre… dove stava andando?
La sera successiva l’ho seguito. Sono rimasta qualche macchina dietro, cercando di non farmi notare, con il cuore che mi batteva così forte che quasi mi toglieva il respiro. Non prese la strada per il quartiere di sua madre: imboccò la direzione opposta, verso l’autostrada.
Dopo una ventina di minuti entrò in una zona che non avevo mai visto e si fermò davanti a un duplex giallo. Scese, tirò fuori un mazzo di chiavi e aprì la porta come se fosse casa sua. Dentro lo aspettava qualcuno. Una donna.
La mattina dopo tornò alla nostra solita ora, con la solita scusa: «Mamma stanotte è stata peggio, non riusciva a dormire».
Io lo guardavo e facevo finta di non riconoscere quel profumo estraneo sulla giacca, quella traccia di un’altra vita appiccicata addosso a lui.
Nei giorni seguenti ho iniziato a mettere insieme i pezzi: movimenti sospetti sul conto, un secondo telefono nascosto, un contratto d’affitto intestato a un certo “Matvej”. Stesso indirizzo del duplex giallo.
Quando mi sono presentata lì, a quell’appartamento, la porta l’ha aperta una donna con un bambino in braccio.
Il bambino aveva gli stessi occhi di Jakov. Gli stessi.
Lei non sapeva nulla di me. Era convinta che io fossi l’ex impazzita di “Matvej” che non riusciva ad accettare la fine della relazione.
Siamo rimaste a parlare per due ore. Due donne diverse, due vite diverse, ma lo stesso inganno cucito addosso.
Jakov ha provato a rigirare tutto, a inventarsi una nuova versione dei fatti, un nuovo groviglio di bugie. Non gli ho concesso neanche il tempo di iniziare. Ho preso la mia borsa, ho chiamato mia sorella e me ne sono andata.
Oggi non so se lui continui a recitare quella doppia parte o se abbia deciso finalmente chi essere.
Non è più qualcosa che mi riguardi.
Perché ho capito alcune cose, che non voglio più dimenticare:
l’istinto di una donna, quando parla, raramente sbaglia;
non si deve amare qualcuno al punto da dissolversi;
e la verità, prima o poi, trova sempre la strada per venire a galla.
Pensavo che quel dolore mi avrebbe distrutta. E invece no.
Oggi non sono a pezzi.
Oggi, finalmente, sono libera.