Dopo essere stata rimbalzata da nove medici diversi, oggi questa madre di un bimbo ancora piccolo vive con una sentenza devastante: secondo le diagnosi, le resterebbe all’incirca un solo anno di vita a causa di una malattia che non si può curare.

Respinta dai medici per nove visite di fila, a Georgia-Leigh Gardiner oggi dicono che resta circa un anno di vita: il suo corpo è aggredito da una malattia che non si può curare.
Ricorda ancora benissimo quella sera di dicembre in cui tutto è cominciato. Un bruciore allo stomaco, acuto, insistente, che lei aveva liquidato come la solita indigestione delle feste. Aveva ventotto anni, un lavoro, una vita piena. La sua felicità più grande era correre dietro al figlio di due anni, Arlo, sul tappeto del soggiorno. Sembrava solo stanchezza: pranzi pesanti, notti troppo corte, corse pazze per organizzare il Natale.
Provò gli antiacidi, ridusse i dolci, si promise più sonno con l’arrivo del nuovo anno. Ma il dolore, invece di attenuarsi, si faceva ogni giorno più profondo. Arrivò al punto che perfino l’acqua le faceva venire da vomitare, una fetta di pane tostato non riusciva a tenerla nello stomaco, e nel giro di poche settimane vide sparire oltre cinque chili dalla bilancia.
Alla prima visita al centro medico, però, nessuno sembrò allarmarsi. “Reflusso gastrico”, le dissero. Qualche farmaco, qualche consiglio su alimentazione e stress, e via la diagnosi. Georgia-Leigh seguì alla lettera le indicazioni, ma si svegliava ogni giorno più debole. A febbraio aveva perso quasi sette chili e perfino prendere in braccio Arlo o salire le scale la lasciava senza fiato. Tornò in ambulatorio con un diario accurato dei sintomi, sperando che stavolta qualcuno la prendesse sul serio. Il secondo medico lo sfogliò in fretta e concludendo, di nuovo: reflusso.
A marzo la situazione precipitò. Finì due volte al pronto soccorso di Leeds, piegata dal dolore e dal vomito. Ogni volta, dopo ore d’attesa, la dimettevano con diagnosi vaghe come “probabile dispepsia” e l’invito a tornare solo se i sintomi fossero peggiorati. Intanto amici e colleghi parlavano di stress, ansia, cambiamenti alimentari. Georgia-Leigh provava di tutto, dall’evitare certi cibi alle tisane “miracolose”, guardando il suo corpo consumarsi. E non poteva fare a meno di notare come i medici sembrassero rassicurati soprattutto da un dettaglio: era giovane. Nei loro sguardi leggeva la stessa convinzione: “A ventotto anni, non può essere nulla di grave”.
La svolta arrivò solo a maggio, quando trovò nello studio una sostituta del suo medico abituale: la dottoressa Aisha Malik. Per la prima volta, qualcuno si sedette davvero ad ascoltarla, senza fretta. Le fece domande precise, chiese dei casi di tumore in famiglia, le fece un esame più attento. Toccando il seno, notò un piccolo nodulo. Non lo sottovalutò. Avviò immediatamente un percorso diagnostico urgente.
Gli esami esclusero il cancro al seno, ma quel sospetto accurato aprì la strada a un’endoscopia. Fu lì che la telecamera rivelò ciò che nessuno aveva voluto vedere prima: la parete dello stomaco era ispessita, rigida, anomala. Seguirono TAC e ulteriori accertamenti.
Il 13 giugno 2025, nello studio del St James’ University Hospital, seduta accanto al compagno Callum, Georgia-Leigh ricevette la frase che congela il respiro. Non era un’ulcera, non era un semplice reflusso. Si trattava di un adenocarcinoma gastrico aggressivo, la cosiddetta linitis plastica. Nel suo caso, già in stadio avanzato: il tumore si era diffuso al peritoneo e ai linfonodi vicino ai polmoni. Non operabile. L’unica arma: la chemioterapia, per rallentare quanto possibile la malattia.
Le aspettative? Un anno di vita, forse un po’ di più.
All’inizio, Georgia-Leigh scoppiò in una risata incredula, una di quelle che escono quando la mente non riesce a stare al passo con ciò che sente. Poi lo shock lasciò spazio a qualcos’altro: la determinazione. Cominciò a cercare informazioni, contattò associazioni di pazienti, entrò in gruppi di supporto. Comprò un quaderno con la copertina gialla e lo battezzò “Progetto Speranza”.
Su quelle pagine tracciò un piano, non un addio. Scrisse: iniziare la chemio a luglio, informarsi sui trial clinici, anticipare il matrimonio con Callum, registrare videodiari per Arlo, organizzare piccole gite tutti insieme. Non voleva pensare al tempo che restava come a un conto alla rovescia, ma come a una serie di traguardi da raggiungere.
La risposta della comunità fu travolgente. Una raccolta fondi online superò in poche settimane le novemila sterline. I vicini portarono casseruole fumanti alla porta di casa, un meccanico si offrì di riparare l’auto senza chiedere un centesimo, una fondazione si attivò per organizzare il matrimonio dei suoi sogni.
Mentre il corpo iniziava a cedere alla stanchezza e agli effetti della terapia, Georgia-Leigh riempiva i giorni di gesti d’amore. Scriveva lettere per il futuro di Arlo, registrava messaggi video per i compleanni che forse non avrebbe festeggiato con lui, preparava piccole sorprese per il suo compagno. Ogni giornata diventava un puzzle di attimi preziosi.
Oggi affronta i cicli di chemioterapia sapendo che le statistiche non raccontano tutte le storie. I numeri dicono “un anno”, ma lei sceglie di vedere ogni singolo giorno come un dono in più: un altro Natale da addobbare, un altro sorriso di Arlo, un altro ricordo da lasciare.
E ha un messaggio chiaro, che ripete ogni volta che può:
«Il dolore che non passa non è nella tua testa. Dimagrire all’improvviso non è una vittoria. Essere giovani non ti rende invincibile. E tacere non significa essere forti.»
Georgia-Leigh non sa quanti tramonti potrà ancora vedere, ma ogni mattina sceglie comunque di alzarsi e combattere. Per suo figlio, per Callum, e per se stessa.

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