Quattro anni dopo aver salutato per sempre mia moglie, mi ritrovai di nuovo davanti all’altare. Con Karina. Era stata lei a riportare un po’ di luce dove per tanto tempo c’era stato solo buio. La cappella profumava di fiori recisi, le candele tremolavano in silenzio, e nella prima fila mio figlio, Timofej, tredici anni, teneva le mani intrecciate sulle ginocchia. Tutto sembrava al suo posto, finché, nel momento esatto in cui sollevai il velo di Karina, la voce di Tim squarciò l’aria.
«Papà, aspetta! Guarda la sua spalla!»
Il silenzio scese come una coperta. Gli sguardi rimbalzarono da Tim a Karina, e infine su quel segno chiaro, a forma di farfalla, che le disegnava la pelle della spalla. Lo conoscevo, certo, ma Tim lo fissava con un’attenzione diversa.
«A scuola c’è una ragazza, Emma,» disse con un filo di tremito, «ha lo stesso identico neo. Uguale, nello stesso punto. Ho letto che certi nei possono essere ereditari.»
Mi voltai verso Karina, spiazzato. La vidi irrigidirsi, il volto sbiancare.
«Devo dirti una cosa», mormorò.
Il sacerdote propose di sospendere la cerimonia, ma Karina scosse la testa: voleva parlare subito.
«A diciotto anni ho avuto una bambina. Non ero pronta. L’ho data in adozione. Anche lei aveva quel neo.»
Un mormorio attraversò i banchi. La mia mente si riempì di domande: Karina non solo aveva una figlia, ma forse era proprio la compagna di classe di mio figlio. Le chiesi perché non me l’avesse confessato prima.
«Mi vergognavo,» sussurrò. «Avevo paura di perderti.»
Decidemmo di proseguire comunque con il rito, ma senza la gioia che immaginavamo. Più tardi, chiesi a Tim di Emma.
«I suoi ‘genitori’ sono molto anziani,» rispose. «Sembrano quasi nonni.»
In quel momento guardai Karina: un pensiero si fece strada.
«Potrebbero essere i tuoi genitori?»
Lei impallidì di nuovo. «Volevano tenerla loro. Io rifiutai. Dopo il parto sono partita all’estero, e non ci siamo più cercati.»
Il giorno dopo andammo da loro. Non vedevano Karina da anni. Alla domanda, la madre scoppiò in lacrime; il padre abbassò lo sguardo.
«L’abbiamo ritrovata in orfanotrofio, dopo che te ne sei andata,» confessò. «Non potevamo lasciarla lì.»
Karina rimase muta, poi chiese: «Lei sa chi sono?»
«Sa di essere stata adottata,» disse il padre. «Sa anche che tu sei la madre biologica. Abbiamo sempre sperato che tornassi.»
Karina implorò un incontro. «Vi prego. Devo rimediare, almeno provarci.»
Accettarono, ma chiesero qualche giorno per preparare Emma. Quella settimana Karina non dormì quasi mai; di notte ripeteva fra sé le parole, come una preghiera. Tim, con la sua disarmante semplicità, divenne il suo alleato più saldo.
«Emma è in gamba,» disse. «Va forte in matematica e ha il tuo sorriso.»
Stabilimmo una data. Emma arrivò cauta, ma con gli occhi limpidi di chi è pronto ad ascoltare.
«So chi siete,» disse con naturalezza. «I nonni mi hanno mostrato le foto. Tu resti loro figlia e io resto tua, anche se allora non potevi tenermi.»
Karina si inginocchiò davanti a lei. «Non voglio imporre nulla. Vorrei solo conoscerti, se te la senti.»
Emma accennò un sorriso. «Per me va bene. Tanto… Tim lo conosco già. È… passabile, per essere un ragazzo.»
Li guardai — Karina, Emma, Tim e i genitori di Karina — e mi accorsi che da una storia spezzata stava nascendo qualcosa di nuovo. Le famiglie non sempre seguono i disegni che immaginiamo: a volte crollano, si disperdono, e poi si ritrovano in una forma diversa. Quando succede, ha il sapore di un piccolo miracolo.