Ero in piedi vicino alla fila di sedie pieghevoli da quasi venti minuti.
Le altre bambine giravano già tra camicie stirate e stivali lucidati, ridendo mentre i loro papà le sollevavano da terra come se fossero delle vere principesse. Perfino il signor Wheeler, il bidello, ballava con la nipotina con un entusiasmo tale da sembrare la serata più importante della sua vita.
Il mio papà, invece, non si vedeva.
Continuavo a fissare la porta con la maniglia di ottone consumata, quella che si inceppava sempre e faceva rumore quando qualcuno cercava di aprirla. Mi sforzavo di non piangere: avevo sistemato i boccoli da sola e non volevo rovinarli con le lacrime.
Quando ormai stavo quasi per convincermi che non sarebbe mai venuto, la porta gemette e si aprì.
Entrò con i suoi soliti jeans, il gilet da lavoro e il cappello che portava ogni giorno. I suoi occhi mi trovarono subito e, in quell’istante, vidi qualcosa che non dimenticherò mai: un filo di colpa… mescolato a una decisione nuova, più ferma.
Gli andai incontro piano, con il cuore che batteva forte.
«Sei in ritardo» dissi, ma la mia voce uscì molto più fragile di quanto avessi immaginato.
Lui si abbassò su un ginocchio e mi tese una rosa bianca.
«Ho dovuto fermarmi da qualche parte prima di venire» mormorò.
«Dove?»
Non rispose subito. Si chinò verso di me e sussurrò all’orecchio:
«Dovevo assicurarmi che lei non rovinasse la nostra serata.»
Capì immediatamente: parlava di mamma.
La sera prima mi aveva detto che probabilmente non sarebbe venuto, che aveva “cose più importanti da fare che travestirsi”. Io avevo finto di non ascoltare, ma ogni parola mi era rimasta addosso.
E adesso era lì, davanti a me, ansimante, con lo sguardo serio e quella rosa tra le dita screpolate.
«Le ho promesso che non perderò più nessun ballo» disse a bassa voce. «Non questa volta. Non mai più.»
Dentro di me qualcosa si era incrinato… e subito dopo era come se si fosse ricomposto in modo diverso. Non lo vedevo così determinato da anni. Restammo fermi, immobili: io che fissavo il fiore, lui che non staccava gli occhi da me, come se il resto del mondo fosse scomparso. Poi partì una vecchia canzone country, una di quelle che canticchiava sempre in camion, e lui mi tese la mano.
«Mi concedi questo ballo, principessa?»
Annuii soltanto e lasciai che mi accompagnasse al centro della sala.
I suoi stivali non erano certo scarpe da ballo, il mio vestito era un po’ troppo lungo e continuavo a inciampare sull’orlo, ma a lui non importava minimamente. Continuava a guardarmi e a sorridere, come se non esistesse niente di più prezioso di quel momento.
«Pensavo che non saresti venuto» gli sussurrai.
«Per un attimo ho pensato di restare a casa» ammise. «Ma non per le ragioni che immagini.»
Non chiesi oltre. La tensione sul suo viso, la mascella serrata, mi fecero capire che non era il momento di scavare.
La serata volò via. Ballammo, ridemmo, partecipammo alla riffa e vincemmo persino un piccolo cesto con cioccolatini e sali da bagno. Me lo strinsi al petto come se fosse un tesoro.
Quando le luci si abbassarono e la musica tacque, mi accompagnò al suo camion. Fuori faceva freddo e lui mi avvolse la sua giacca sulle spalle, come faceva quando ero più piccola. Ero convinta che mi avrebbe riportata a casa da mamma, come sempre. Ma a metà di Maple Drive accostò sul bordo della strada.
«Devo dirti una cosa» disse, spegnendo il motore.
«Che cosa?» chiesi, già in allarme.
«Tua madre si trasferisce. Dice che ha trovato lavoro a St. Louis. Vuole portarti con sé.»
Sentii il sangue ghiacciarsi. «Cosa?!»
«Me l’ha detto oggi, prima che venissi a prenderti. È per questo che sono arrivato in ritardo.»
«Ma io non voglio andare a St. Louis!» protestai quasi gridando.
«Lo so, amore» sospirò, fissando il volante. «Lei è convinta che sia meglio per te. Dice che ho troppi alti e bassi, che ti serve qualcuno stabile.»
«Non può semplicemente portarmi via!» urlai. «Può farlo davvero?»
«Crede di sì» rispose piano. «Ma io non starò a guardare.»
Quella notte piansi stringendo il cestino della riffa tra le braccia finché non caddi addormentata.
Le settimane seguenti scorsero lente e pesanti. Mamma riempiva scatoloni, telefonava agli avvocati e pensava che io non sentissi. Papà iniziò a farsi vedere sempre più spesso: mi aiutava con i compiti, faceva la spesa, veniva alle prove del coro. Non parlava apertamente di ciò che stava succedendo, ma io sentivo che dietro le quinte qualcosa si stava muovendo.
Un pomeriggio mi portò fuori città. Parcheggiò davanti a un piccolo studio legale dalle tende beige.
«Perché siamo qui?» chiesi guardando l’insegna.
«Perché combatterò per te» disse, togliendo la chiave dal cruscotto.
«Combattere?» ripetei.
«Tua madre ha chiesto l’affidamento esclusivo» spiegò senza giri di parole.
Una fitta mi strinse lo stomaco.
«Non lascerò che ti porti via» aggiunse, guardandomi dritta negli occhi. «Ma ho bisogno che tu sia onesta quando ti faranno delle domande. Di’ solo la verità. Di’ come ti senti davvero.»
Ed è quello che feci.
Nei mesi successivi incontrai una donna dal volto dolce, l’assistente legale per i minori. Mi fece tante domande su entrambi i miei genitori: cosa mi piaceva di loro, cosa mi faceva soffrire. Risposi senza inventare nulla. Dissi che papà non era sempre stato presente, che aveva commesso molti errori, ma che quando c’era, c’era sul serio. Dissi anche che mamma si impegnava, ma spesso non mi ascoltava davvero.
Una sera, rovistando tra le sue cose nel camion, trovai una vecchia fotografia sgualcita: io a cinque anni, addormentata tra le sue braccia, entrambi con coroncine di carta prese in un fast food. Sul retro c’era scritto:
«Il giorno in cui è nata mi ha reso un uomo migliore.»
Il cuore mi fece male. Piegai la foto con attenzione e la infilai nel mio diario.
Il giorno dell’udienza mi fecero aspettare fuori dall’aula. Gli adulti parlavano a voce bassa, come se le parole non dovessero raggiungermi. Io bevevo un succo di frutta e fingevo di essere indifferente, ma sentivo ogni secondo appiccicato alla pelle.
Quando alla fine la porta si aprì, papà uscì per primo.
Si abbassò all’altezza del mio sguardo. «Lei potrà trasferirsi» disse con calma. «Ma tu non sei obbligata ad andarci. Il giudice ha deciso che sei abbastanza grande per scegliere.»
«Posso restare?» chiesi, quasi senza respiro.
«Sì» rispose, e quel sì mi sembrò il suono più bello del mondo.
Gli saltai al collo e lo strinsi così forte che per un attimo ebbi paura di fargli male. Non lo mollai finché non fu lui a ridere e a chiedermi un po’ d’aria.
Quella sera festeggiammo come se fosse Capodanno: tre pizze diverse sul tavolo, musica alta e noi due a ballare in salotto, ridendo fino alle lacrime. Solo noi.
Non fu che da quel momento la vita diventò perfetta. Mamma soffriva, era arrabbiata, e ci volle tempo perché la tensione si abbassasse. Si trasferì lo stesso, ma trovammo un nuovo equilibrio: ci sentivamo nei fine settimana, veniva a trovarmi durante le vacanze.
Papà, invece, cambiò davvero. Non era più solo “il papà che si presenta agli eventi importanti”.
Era lì nelle cose piccole: nei progetti di scuola, nelle colazioni con i pancake il sabato mattina, nelle giornate di pesca sotto la pioggia, nelle serate sul divano a guardare film che lui fingeva di non apprezzare.
Un pomeriggio di primavera, tornando a casa, trovai una scatola di metallo lucida appoggiata sul portico. Dentro, un paio di scarpe glitterate, un invito scritto a mano e un biglietto:
«Per la ragazza che merita ogni ballo.»
Era un nuovo evento padre-figlia, stavolta un ballo di beneficenza. Io avevo un vestito argentato e lui, per la prima volta dopo il matrimonio con mamma, indossò una cravatta.
Quando entrammo nella sala, molti si voltarono a guardarci. Non tanto per i vestiti, quanto per il modo in cui mi teneva la mano: con una cura e una presenza che dicevano tutto, senza bisogno di parole.
A metà serata gli chiesi: «Che cosa intendevi quella prima volta, quando dicesti che dovevi assicurarti che lei non ci fermasse?»
Si fermò un attimo, come per scegliere le parole giuste.
«Intendevo che dovevo liberarmi della versione di me che ti aveva già delusa troppe volte» rispose. «Dovevo fare in modo che niente, né la paura né il senso di colpa, mi impedisse di esserci davvero.»
Quello fu il vero punto di svolta.
Non aveva lottato solo contro un’istanza in tribunale. Aveva lottato contro sé stesso. Contro quella parte di lui che sceglieva sempre la fuga invece della responsabilità.
Quella notte, come la prima, ballammo finché le gambe non ci ressero più.
Oggi sono grande, frequento l’università e studio assistenza sociale. Ma quella fotografia è ancora con me. E la rosa bianca, ormai secca, riposa tra le pagine di un libro che tengo sul comodino.
Ogni anno, nell’anniversario del nostro primo ballo, ricevo una cartolina con tre parole soltanto:
«Continuo a esserci.»
Per me, questo è l’amore. Non è perfetto, non arriva sempre puntuale, non ha sempre la forma che hai immaginato. Ma quando è autentico, trova un modo per presentarsi. Anche in ritardo.
Un brindisi a chi ha il coraggio di lottare per una seconda possibilità.
E adesso la domanda è per te: chi, nella tua vita, è riuscito a esserci proprio quando non te lo aspettavi più?