La chiamano “la notizia del giorno”: una giovane orfana ha ricevuto in eredità dal nonno un vecchio divano e, non appena ci si è seduta sopra, il mobile è crollato sotto il suo peso.

Quando Victoria tornò nella vecchia casa di suo nonno, in un paesino sperduto nella regione di Ivanovo, il cuore le si strinse in un nodo. Erano passati anni dall’ultima volta che aveva spinto quel cancello cigolante, eppure, appena entrò, ebbe l’impressione che il tempo si fosse fermato. L’odore di legno vecchio, di polvere e di stoffe dimenticate la avvolse come una coperta pesante.

Dal corridoio scorse subito il salotto. Lì, al suo posto di sempre, c’era il divano del nonno – quello su cui, da bambina, passava interi pomeriggi a saltare, ridere e farsi rimproverare a metà sorriso da Silan.

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Un mezzo sorriso le affiorò sulle labbra mentre si avvicinava e sfiorava il rivestimento consumato, liso negli angoli. Si lasciò cadere con attenzione sui cuscini, e in quell’istante le parve di sentire di nuovo il nonno ridere, di rivedere le sue mani grosse che le porgevano una tazza di tè. Ma la magia durò un secondo: un crepitio secco squarciò il silenzio, poi un crack più forte.

Victoria emise un piccolo grido mentre il divano cedeva sotto di lei. Cercando di rialzarsi, sentì sotto le dita qualcosa di duro, diverso dal legno del telaio. Si chinò meglio, strappò la fodera lacerata… e quello che vide lì sotto non solo le tolse il fiato, ma cambiò per sempre la direzione della sua vita.

La strada che l’aveva riportata in quella casa era stata tutt’altro che lineare.
Sua madre, Elena, era scappata a Mosca con un altro uomo quando Victoria era ancora un’adolescente, stufa della povertà e della fatica quotidiana. Suo padre, Evgenij, invece, aveva cercato di reggere il mondo sulle spalle: di giorno faceva consegne di generi alimentari, di notte lavorava in magazzino. Due lavori, pochissimo sonno e, nonostante tutto, i soldi non bastavano mai.

Nel frattempo, il nonno Silan combatteva contro un tumore che non lasciava scampo, caricandosi addosso non solo la malattia, ma anche un cumulo di rimpianti.

Quando Elena se ne andò, non abbandonò solo suo marito, ma anche sua figlia. Victoria, a quindici anni, non era in grado di dare un senso a quella fuga vigliacca. Poco dopo, arrivò un altro colpo: Evgenij morì in un incidente, lasciandola sola con un nonno malato e una casa che scricchiolava tanto quanto le loro vite.

Elena ogni tanto ricompariva come una comparsa in un film: una telefonata frettolosa, una visita breve e imbarazzata. Ma Silan non le perdonò mai la sua scelta.

— Se n’è andata quando avevamo più bisogno di lei — bofonchiava, scuotendo il capo. — Una così non cambia.

Un anno dopo, anche Silan se ne andò. Victoria, senza alcun sostegno, fu costretta a trasferirsi a Mosca da sua madre. Ma la vita lì si rivelò ben diversa dal sogno che, in segreto, aveva coltivato.

L’uomo con cui Elena viveva, Dmitrij, la guardò fin dal primo giorno come un intruso.

— Quella ragazzina rovina tutto — disse una sera, convinto che Victoria non sentisse. — Non dovrebbe stare qui.

Le tensioni crebbero in fretta. Ogni parola diventava una scintilla. Alla fine, Dmitrij se ne andò sbattendo la porta, e invece di difendere la figlia, Elena scagliò la sua rabbia su Victoria.

— È colpa tua se se n’è andato! — urlò, gli occhi pieni di risentimento più che di dolore.

In quell’aria pesante, Victoria avrebbe potuto arrendersi. Invece si aggrappò ai libri. Studiò senza sosta, si conquistò borse di studio, riuscì a entrare all’università di Mosca e, nel frattempo, lavorava in un caffè per mantenersi. Fu lì che conobbe Kirill.

Lui preparava cappuccini perfetti e battute veloci. L’amicizia si trasformò piano in qualcosa di più caldo, più profondo. Sembrava che finalmente la vita le stesse regalando un po’ di stabilità.

Poi arrivò il test di gravidanza positivo.

Victoria lo guardava tremando, ma con una piccola speranza nel cuore: forse, per la prima volta, non sarebbe più stata sola. Quando lo disse a Kirill, però, il suo mondo si incrinò.

— Non sono pronto — mormorò lui, incapace di sostenerne lo sguardo. — Non posso fare il padre.

E sparì. Senza gesti plateali, senza addii, semplicemente smise di esserci.

Spezzata, Victoria cercò almeno il sostegno di sua madre. Ma Elena, come sempre, si tirò indietro.

Così, ostinata, Victoria decise di finire gli studi comunque. E quando non ebbe più nulla che la trattenesse a Mosca, fece l’unica cosa che le sembrasse sensata: tornò nel solo posto in cui un tempo si fosse sentita davvero al sicuro, la casa di suo nonno.

La trovò soffocata dalle erbacce, quasi inghiottita dalla natura. La porta d’ingresso era chiusa, la serratura arrugginita. Con la pancia già evidente e una valigia accanto, si guardò intorno, indecisa sul da farsi.

Nel cortile vicino, un uomo stava spaccando la legna.

— Mi scusi! — lo chiamò. — Potrebbe aiutarmi con la porta?

Lui si raddrizzò, si asciugò la fronte con l’avambraccio e le rivolse un sorriso aperto.

— Certo, dammi solo un momento.

Mentre si avvicinava, Victoria notò che zoppicava leggermente.

— Non voglio crearle problemi — azzardò. — Se preferisce, chiamo qualcun altro…

L’uomo la fissò per un attimo, poi i suoi occhi si illuminarono.

— Victoria? Sei tu? Sono Timofej! Non ti ricordi?

Le ci volle qualche secondo per collegare quel volto segnato al ragazzo di un tempo.

— Timofej… Ma sei irriconoscibile!

Lui rise.

— Il lavoro duro cambia più di un parrucchiere. E tu? Cosa ci fai qui dopo tutti questi anni?

— È una storia lunga — sospirò lei. — Ma prima, se riusciamo ad aprire quella porta, te la racconto.

Con qualche attrezzo e un po’ di forza, Timofej riuscì a far cedere la serratura. L’interno era un museo dimenticato: ragnatele agli angoli, strati di polvere, mobili coperti da lenzuola grigie.

— Sembra davvero che qui vivano i fantasmi — tossì lui. — Vieni, ti aiuto a rimettere un po’ d’ordine.

Victoria tentennò, poi accettò il suo aiuto. Passarono ore a spolverare, arieggiare, buttare via ciò che era ormai irrecuperabile. Nel frattempo lei gli raccontò tutto: Elena, Dmitrij, l’università, Kirill, il bambino in arrivo. Timofej ascoltava senza interromperla, con una pazienza che la spiazzava.

Alla fine arrivarono al vecchio divano di Silan.

— Questo era il suo trono — disse Victoria, passandoci la mano sopra. — È stato in casa nostra per generazioni. Spero solo che regga ancora…

Timofej accennò un sorriso.

— Se non regge, lo sistemiamo. Vedrai.

Lei si sedette con cautela. Il legno protestò con uno scricchiolio, poi con un suono più secco. Victoria trasalì.

— Aspetta… qui sotto c’è qualcosa.

Insieme strapparono la stoffa già logora. Sotto il sedile trovarono un vano nascosto. In fondo, un piccolo scrigno. Dentro, monete d’oro, alcuni gioielli e una busta piegata con cura.

Le mani di Victoria tremavano mentre apriva la lettera.

«Se questa lettera è arrivata fino a te, Victoria, vuol dire che è arrivato anche il momento giusto. Avrei voluto consegnarti tutto di persona, ma eri troppo giovane e la vita è stata più veloce di me. Questo tesoro viene dal mio nonno, e lui lo lasciò a chi ne avesse davvero bisogno. So cosa hai passato. Spero che questi soldi ti aiutino a costruire il futuro che meriti.
Con amore, tuo nonno Silan.»

Victoria strinse il foglio al petto, le lacrime che le rigavano il viso si mescolavano alla polvere.

— E io che pensavo fosse solo un vecchio divano sgangherato… — borbottò Timofej, grattandosi la testa, con un sorriso che cercava di stemperare l’emozione.

Grazie a quel tesoro inatteso, Victoria poté ristrutturare la casa, sistemare il tetto che perdeva, imbiancare le pareti, comprare ciò che serviva per il bambino. Timofej non la lasciò un solo giorno da sola: la aiutò con i lavori pesanti, la accompagnò alle visite, restò quando le altre persone trovavano scuse per andarsene.

Qualche mese dopo, nacque un bambino sano e forte. Le notti insonni, i pianti, le prime paure furono più sopportabili perché non era sola: Timofej era lì, pronto a prendere in braccio il piccolo, a cambiare pannolini, a preparare il tè quando lei crollava sulla sedia.

Col tempo, la gratitudine si mescolò a qualcosa di più caldo. Un giorno, nel cortile che avevano ripulito insieme, tra i filari d’uva e il profumo di erba tagliata, Timofej le prese la mano.

— Victoria… — disse, un po’ impacciato. — Non so se sono arrivato tardi nella tua vita, ma vorrei restarci per sempre. Vuoi sposarmi?

Lei non dovette pensarci molto. Guardò la casa rinnovata, il bambino che dormiva vicino alla finestra, il cielo pulito sopra di loro.

— Sì — rispose, con un sorriso che conteneva anni di mancanze e, finalmente, pienezza.

Aveva perso un padre, un nonno, un amore e persino l’illusione di avere una madre presente. Ma ora aveva un marito che la rispettava, un figlio da crescere e il dono silenzioso di un nonno che, a modo suo, l’aveva protetta anche da lontano.

Che cosa ci racconta davvero questa storia?
Che la vita può essere crudele, sì, ma anche sorprendente.
Che le persone giuste spesso arrivano quando abbiamo smesso di cercarle.
E che i tesori più importanti non sono solo nascosti in un vecchio mobile pieno di polvere, ma anche nel cuore di chi resta al nostro fianco quando tutti gli altri se ne vanno.

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