Nikolaj Andréevič se ne stava seduto, quasi pietrificato, su una panchina di metallo che gli gelava la schiena. Si stringeva nel vecchio cappotto che un tempo indossava con fierezza, come una divisa: era il simbolo del suo posto rispettato nel servizio abitativo.
Una volta aveva tutto: una buona reputazione, un lavoro stabile, una famiglia, il ruolo di marito, padre e nonno di cui andava orgoglioso. Adesso non gli restava che la solitudine. La sua vita non era crollata all’improvviso: si era sgretolata piano, in silenzio, finché lui stesso non aveva più riconosciuto il proprio mondo.
Quando il figlio, Valerij, gli aveva presentato la nuova moglie, Olga, in lui era scattato qualcosa. Non era una cosa concreta, piuttosto una sensazione: un freddo leggero, ma persistente. Olga era bella, curata, sapeva come parlare e come sorridere, ma nei suoi occhi non c’era un briciolo di calore. Non lo attaccò mai apertamente, non alzò mai la voce, eppure la sua presenza iniziò a cancellarlo, poco alla volta, dalla sua stessa casa.
Prima spostarono i suoi libri in un ripostiglio “per fare ordine”. La sua poltrona preferita, quella vicina alla finestra, sparì “perché occupava spazio”. Il bollitore con cui si preparava il tè da anni fu sostituito da uno nuovo, “più moderno”. Poi vennero i suggerimenti detti con cortesia, ma affilati come lame:
forse gli avrebbe fatto bene passare più tempo all’aria aperta, passeggiare di più, non affaticarsi… magari pensare a trasferirsi in campagna, o valutare una bella casa di riposo “con assistenza, così staremmo tutti più tranquilli”.
Nikolaj non litigò. Non alzò mai la voce. Raccolse quel poco che ancora sentiva suo in una valigia consumata e se ne andò. Non lasciò accuse, non fece scenate. Solo un silenzio pesante, pieno di amarezza, tra un addio mai pronunciato e una porta richiusa alle sue spalle.
Per giorni camminò sotto la neve, tra strade che conosceva a memoria ma nelle quali era diventato invisibile. Nessuno lo fermava, nessuno chiedeva nulla. Alla fine scelse come rifugio una panchina del parco: proprio quella dove, tanti anni prima, portava sua moglie a passeggiare la domenica e dove aveva visto il figlio muovere i primi passi traballanti. Ora era lì da solo, con lo sguardo perso e le mani intorpidite dal gelo.
Una mattina, il freddo sembrava tagliare l’aria in due. Nikolaj stringeva le spalle quando sentì una voce alle sue spalle:
— Nikolaj? Sei proprio tu?
Si voltò lentamente. Una donna, avvolta in un cappotto caldo e con una sciarpa di lana ben stretta intorno al collo, lo stava fissando con occhi increduli. Ci mise un attimo a riconoscerla, ma quando ci riuscì il cuore gli sobbalzò: era Maria Sergeevna, il suo primo amore, quello di gioventù, rimasto sospeso tra “se” e “chissà” per tutta una vita. In una mano aveva un thermos da cui usciva vapore, nell’altra un sacchetto di dolci ancora caldi.
Si sedette accanto a lui, come se fossero solo passati pochi giorni dall’ultima volta che si erano visti.
— Ogni tanto faccio un giro qui al parco, — disse piano. — Mi aiuta a non sentirmi troppo sola. E tu, come mai?
Nikolaj guardò davanti a sé, verso il viale coperto di neve.
— Questo posto è pieno della mia vita, — rispose. — Qui mio figlio ha imparato a camminare.
In poche frasi, quasi con vergogna, le raccontò ciò che era successo: il figlio messo davanti a una scelta, la moglie o il padre. E la decisione presa da Valerij senza troppi dubbi.
Maria non lo interruppe, non lo compatì a parole. Ascoltò e basta, ogni tanto abbassando lo sguardo sulle sue mani screpolate e sul viso stanco.
Quando lui tacque, lei fece un respiro profondo.
— Vieni a stare da me, — disse semplicemente. — La casa è grande, io sono sola. Non è giusto che tu passi le notti su una panchina. Troveremo una soluzione, insieme. La solitudine pesa meno se si porta in due.
Anche lei, del resto, conosceva bene il vuoto: era rimasta vedova anni prima, e l’unico figlio che aveva tanto desiderato non era mai arrivato al mondo. Da allora viveva di piccole abitudini e lunghi silenzi.
Quella sera, per la prima volta dopo chissà quanto tempo, Nikolaj non si addormentò sotto il cielo aperto. Si svegliò in un letto vero, con una coperta pesante sulle gambe, circondato dal profumo di torta appena sfornata e dal borbottio dell’acqua che bolliva sul fornello. La casa di Maria era semplice, ma calda e piena di oggetti che parlavano di una vita vissuta: tazze spaiate, foto in bianco e nero, tende un po’ consumate ma immacolate.
I giorni si trasformarono in settimane senza che lui quasi se ne accorgesse. Nikolaj riprese a vivere: rimetteva a posto i mobili, aggiustava cassetti che non scorrevano, oliava le cerniere delle porte, portava la spazzatura, faceva la spesa, raccontava aneddoti del suo vecchio lavoro. Maria lo ricambiava con zuppe bollenti, dolci casalinghi e una presenza discreta, costante. Non avevano bisogno di molte parole sul passato: bastava quello che avevano davanti, lì e adesso.
Un pomeriggio, di ritorno dal mercato con una borsa di verdure e pane fresco, Maria vide una figura ferma davanti al cancello, indecisa se suonare o andarsene. Era un uomo sulla cinquantina, con il volto tirato e lo sguardo perso: Valerij.
— Posso aiutarla? — chiese lei, tenendo ancora la busta in mano.
Lui si voltò di scatto.
— Sto cercando mio padre, — disse, con la voce che gli tremava appena. — Mi hanno detto che potrebbe essere qui. Mia moglie… Olga… se n’è andata. L’ho persa. E ho capito troppo tardi cosa ho fatto a lui.
Maria lo fissò a lungo, come se volesse vedere quanto di sincero ci fosse in quelle parole. Poi aprì il cancello, ma senza nascondere la durezza nel tono:
— Puoi entrare. Ma ricordati una cosa: non puoi ricordarti di lui solo adesso che sei rimasto solo tu.
Lo accompagnò in soggiorno. Quando Nikolaj lo vide sulla soglia, il tempo sembrò fermarsi per un istante. Padre e figlio si guardarono negli occhi, con in mezzo anni di scelte sbagliate e parole non dette.
Fu Valerij a parlare per primo:
— Papà… ho sbagliato. Mi dispiace, — mormorò. — Ho scelto nel modo più codardo che potessi. Credevo di fare la cosa giusta per la mia famiglia, ma ti ho buttato via come se non contassi niente.
Nikolaj inspirò lentamente. Non c’era più rabbia nei suoi occhi, solo una stanchezza profonda.
— Avresti dovuto dirmelo prima, — rispose, con calma. — Prima che mi ritrovassi in strada. Ma il rancore non mi serve. Ti perdono.
E lo pensava davvero. Sentiva che aggrapparsi alla collera non gli avrebbe ridato niente. Però c’era qualcosa che non era disposto a fare: tornare indietro come se niente fosse.
— Però ascoltami bene, Valerij, — continuò. — Io adesso qui ho trovato una casa. Ho trovato calore, rispetto… e qualcuno che mi considera una persona, non un peso. Perdonare non vuol dire cancellare tutto. Non tornerò nella vecchia vita, non alle condizioni di prima.
Valerij abbassò lo sguardo, annuendo in silenzio. Capiva che quello non era un capriccio di un anziano, ma la scelta di un uomo che, dopo essere stato messo alla porta, aveva finalmente ritrovato un posto dove sentirsi accolto.
In quella piccola casa, per la prima volta, erano in tre.
Un padre che aveva sofferto, un figlio che imparava a chiedere perdono e una donna che, agli occhi di tutti, forse non era nessuno, ma che aveva saputo restituire dignità a una vita che altri avevano scartato.
Certo, ecco una versione riscritta e totalmente unica in italiano: «Spinto dalle pretese di sua moglie, mise suo padre alla porta… Ma uno sconosciuto incontro al parco ribaltò il destino di tutti…»
Advertisements