«Maria, tu ci credi davvero ai miracoli?» chiese Fyodor, sedendosi sul gradino della veranda e asciugandosi il sudore con il dorso della mano. «Pensi che il cielo ascolti davvero quello che gli chiediamo?»
«Io credo nel lavoro fatto bene e nella pazienza», rispose lei, sfiorandogli la spalla in un gesto affettuoso. Poi si fermò di colpo, strizzando gli occhi verso il fondo della strada polverosa. «Aspetta… guarda laggiù.»
L’aria di luglio tremolava come un vetro rovente, e il villaggio pareva trattenere il respiro sotto quel sole spietato.
Attraverso quella foschia luminosa, due sagome minuscole cominciarono a distinguersi, avanzando lentamente. Fyodor aggrottò la fronte e si fece schermo con la mano. Erano bambini: due fratellini che procedevano incerti, mano nella mano, come se camminassero da ore.
«Non li ho mai visti prima», mormorò Fyodor alzandosi.
Maria era già quasi al cancello. Nel profondo del petto sentì risvegliarsi qualcosa che credeva ormai spento: quel filo sottile e tenace che negli anni aveva tenuto in vita il sogno di diventare madre.
I due si fermarono davanti a loro. Erano magri, con gli occhi grandi e smarriti. Il più piccolo stringeva contro di sé una vecchia bambola di pezza, come fosse un’ancora.
«Bambini, chi siete? Vi siete persi?» domandò Maria, piegandosi alla loro altezza.
Il maggiore la fissò senza proferire parola. Il piccolo aprì la bocca, ma ne uscì solo un suono spezzato, lo sguardo inquieto che saltava da un volto all’altro.
«Sono… diversi dagli altri», sussurrò Fyodor, studiandoli.
Vestiti consunti, polvere sulle braccia, qualche graffio sulle ginocchia: sembravano due cuccioli lasciati al loro destino.
«Avete sete?»
Un cenno timido, poi, all’improvviso, un sorriso. Breve, luminoso, come un raggio di sole tra le nuvole. Maria sentì quella mano piccola e secca scivolare nella sua.
«Venite dentro. In casa c’è fresco.»
Fyodor rimase in silenzio, lasciando che fosse lei a guidarli oltre la soglia. Dentro, l’aria profumava di pane appena sfornato e di mazzetti di erbe appesi ad asciugare. I bambini inspirarono profondamente, quasi increduli.
«Io mi chiamo Petja», disse il più piccolo, battendosi il petto con un dito.
«E tu come ti chiami?» chiese Maria al fratello maggiore.
«Vanja», sussurrò lui, quasi vergognoso.
Seduti a tavola, bevvero kvas in grandi sorsi e addentarono il pane col burro piano, con una lentezza rispettosa, come se ogni briciola avesse un valore enorme.
«Da dove venite? E i vostri genitori dove sono?» domandò Fyodor.
Petja scosse la testa, Vanja abbassò lo sguardo verso il piatto. «Un uomo ci ha portati qui», disse infine il più piccolo.
Maria capì senza bisogno di altre spiegazioni: non erano lì per caso. Erano stati lasciati.
«Resterete qui con noi finché non troveremo la vostra famiglia», disse con dolce fermezza.
Quella notte, mentre i bambini dormivano nella stanza degli ospiti, Fyodor e Maria rimasero seduti sulla veranda, sotto un cielo trapunto di stelle.
«Qualcuno ce li ha mandati», mormorò Fyodor.
«Perché sapeva che non li avremmo mandati via», rispose Maria. «Forse il miracolo di cui parlavi… è questo.»
Col passare dei mesi, il consiglio del villaggio tentò di convincerli a mandare i fratelli in orfanotrofio, ma un amico di Fyodor li aiutò a ottenere la tutela legale.
Petja crebbe taciturno e pieno di fantasia, con un’innata sensibilità per la musica. Vanja, più robusto, sembrava invece capire al volo gli animali, come se parlassero la stessa lingua.
Fyodor insegnò loro a lavorare la terra, a seminare, a mungere, a curare il pollaio. Maria li amò semplicemente come se li avesse partoriti lei stessa. All’inizio la gente del villaggio li osservava con sospetto, ma anno dopo anno quei due ragazzi divennero parte naturale del paesaggio umano della comunità.
La fattoria cominciò a prosperare, e ognuno trovò il proprio ruolo: Vanja tra mucche, cavalli e vitelli; Petja tra le arnie, con le api che lo circondavano senza mai pungerlo, come riconoscendolo.
Poi, un giorno, arrivò la malattia. A trent’anni, a Petja fu data una diagnosi che non lasciava spazio alle illusioni.
«Per lui, essere arrivato fin qui è già un miracolo», disse il medico, quasi a voler consolare.
Vanja non capiva davvero. Ogni mattina domandava quando il fratello sarebbe tornato a vedere i vitellini nuovi. Fyodor lavorava nei campi finché c’era luce, poi passava le notti sulla sedia accanto al suo letto.
Un pomeriggio d’autunno, il sole entrava dalla finestra dell’ospedale tagliando la stanza in strisce dorate. Petja teneva ancora stretta la vecchia bambola di pezza.
«Mamma… ti ricordi le api?»
«Come potrei dimenticarle, tesoro mio.»
«Mi cantavano… canzoni.» Il sorriso gli sfiorò appena le labbra, poi serrò più forte la mano di Maria. «Sono stato felice, sai? Avevo tutti voi.»
Quella notte se ne andò, senza rumore.
Il giorno del funerale il cielo era limpido, terso, proprio come la prima volta che lo avevano visto arrivare da quella strada. Vanja stava immobile, con la bambola stretta contro il petto, gli occhi persi in un punto lontano.
Gli anni scivolarono via. Vanja rimase alla fattoria, semplice e fedele, accanto a Fyodor che invecchiava, ma continuava a coltivare progetti, piccoli e testardi.
Al tramonto, si ritrovavano spesso sulla veranda, a parlare di raccolti, di miele, dei vitelli nati quell’anno. Il nome di Petja tornava sempre, come una nota dolce in una canzone antica.
Una sera, Vanja fissava l’orizzonte che si tingeva di rosa. «Penso a quanto siamo stati fortunati che ci abbiate trovati quel giorno», disse piano. «E sono sicuro che anche Petja la pensa così.»
Maria lo strinse tra le braccia, Fyodor si sedette accanto a loro con un sospiro che era metà stanchezza e metà gratitudine.
«Sai, Fedya», mormorò Maria, «adesso credo anch’io ai miracoli.»
«Che tipo di miracoli?» chiese lui, con un mezzo sorriso.
«Quelli che arrivano a piedi nudi da una strada impolverata… e restano con te per sempre», rispose stringendogli la mano più forte.
Vanja alzò lo sguardo verso il cielo e sorrise. «Petja ci sta salutando», disse con convinzione.
Fyodor e Maria si scambiarono un’occhiata. Non vedevano nulla con gli occhi, ma nel cuore sentivano chiaramente quella presenza.
E capirono che i loro figli sarebbero rimasti lì per sempre: uno seduto accanto a loro sulla veranda, l’altro custodito per sempre nel loro amore.
Era il 1990 quando, in una gelida mattina, trovai due bambini malati abbandonati davanti alla mia porta. Li presi con me come se fossero i miei, li accudii con tutto l’amore e le forze che avevo… ma uno di loro non riuscii a sottrarlo alla morte.
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