Alena chiuse con uno schianto l’anta dell’armadio: le tazze sul ripiano tintinnarono come per protesta. Per la terza volta in una settimana, i suoi documenti erano spariti. In quella casa, pensò, gli oggetti sembravano muoversi da soli, inseguendo un ordine ideale che esisteva solo nella testa di Larisa Petrovna.
— Farò tardi, non aspettarmi — gridò Viktor dall’ingresso.
— Aspetta! — Alena sbucò nel corridoio. — Hai visto una cartellina blu con i contratti? Ho una riunione importante.
Viktor si raddrizzò il nodo della cravatta, alzando le spalle.
— Non ne ho idea. Chiedi a mamma: ieri ha rimesso a posto un po’ di cose.
— Ancora? — Alena incrociò le braccia, irritata. — Avevamo deciso che tua madre non avrebbe toccato il mio materiale di lavoro.
— Ti prego, non ricominciare — sbottò lui, guardando l’orologio. — Voleva aiutare, non l’ha fatto con cattiveria.
Alena inspirò, contando fino a cinque.
— Capisco la buona volontà, ma se non trovo ciò che mi serve, non è aiuto.
Viktor la salutò con un bacio frettoloso e uscì. Alena rimase a fissare la porta che si chiudeva.
Il telefono trillò.
— Pronto, Marina?
— Sei in ritardo per la riunione — la voce della collega era tesa. — Klimeñko ha già chiesto di te due volte.
— Non trovo la cartellina! — Alena camminava avanti e indietro. — Di’ che arrivo entro mezz’ora.
Alla fine li scovò nella camera degli ospiti: i documenti erano impilati con cura tra alcuni libri. Proprio lì, dove lei non li avrebbe mai messi.
La sera rientrò sognando solo una doccia lunga. Ma il frastuono proveniente dalla cucina le fece capire che non avrebbe riposato: piatti sbattuti e la voce trionfante della futura suocera.
— Finalmente! Ti stavamo aspettando. Ho cucinato il tuo pilaf preferito.
Alena serrò la mascella. Odio puro per quel piatto, e lo aveva detto mille volte.
— Buonasera, Larisa Petrovna — forzò un sorriso. — Non era necessario, avrei preparato io qualcosa.
— Ma figurati! — Larisa spalancò le braccia. — Viktor stamattina ha detto che saresti rientrata tardi, così ho pensato di viziarvi un po’. Con tutto quel lavoro, quando cucini?
Viktor le lanciò uno sguardo supplichevole: “Non iniziare”.
— Grazie — disse Alena sedendosi. — Ma la prossima volta gradirei un avviso.
Larisa rimase con il mestolo a mezz’aria.
— Sto dando fastidio? Volevo solo aiutare. Viktor dice che ti è difficile tenere insieme lavoro e casa.
— Mamma, stai tranquilla — intervenne lui, abbracciandola. — Non disturbi. Alena è solo stanca, vero?
— Sì, scusate. Giornata pesante.
Si cenò in un silenzio spesso. Poi Larisa si accomodò in poltrona con i ferri da maglia, senza la minima intenzione di andarsene.
— Mamma, vuoi che ti accompagni? — provò Viktor.
— Perché? Dormo nella camera degli ospiti. Domattina vi preparo la colazione.
A letto, Alena sussurrò:
— È la terza notte che resta qui… Ha deciso di trasferirsi?
— Smettila — disse lui, fissando il soffitto. — È sola, lo sai.
— Lo so. Ma non posso vivere in casa mia con qualcuno che sposta le mie cose, critica come cucino e organizza la nostra vita.
— Non comanda nessuno…
— Ah no? Chi ha buttato le mie tende preferite per mettere le “pratiche” che piacciono a lei?
— Cambiamo argomento. Sono sfinito.
Il giorno dopo, Viktor la accolse raggiante. La sollevò e la fece girare:
— Promozione! Vice responsabile di reparto!
— Fantastico! Dobbiamo festeggiare.
— Ho già invitato mamma a cena.
Il sorriso di Alena si spense.
— Senza chiedere a me?
— Sei contraria alla presenza di mia madre?
— Non è questo…
Il campanello zittì tutto. Larisa entrò con una torta enorme.
— Congratulazioni al mio ragazzo! — baciò Viktor e poi ad Alena: — Non preoccuparti, penso a tutto io.
La cena passò surreale: madre e figlio ripercorsero infanzia, università, primo impiego. Alena si sentì ospite in casa propria.
Dopo qualche giorno di calma apparente, arrivò la sorpresa. Alena rimase di sasso sulla soglia: due valigie sconosciute nel corridoio; dalla cucina, ante che sbattevano. Il telefono squillò in tasca.
— Marina, ti richiamo — mormorò, chiudendo la chiamata.
Avanzò in punta di piedi fino alla camera degli ospiti. Il suo studio era stato trasformato in una stanza da letto: cuscini con volant, un esercito di flaconi sul comodino, scatole nell’angolo, l’armadio pieno di vestiti non suoi.
— Non è possibile… — sussurrò davanti al vanity.
Tra i suoi cosmetici, ora allineati in modo militare, c’erano cornici con foto: il piccolo Viktor sull’altalena, Viktor al mare con i genitori, un campeggio di famiglia. Le sue immagini, relegate ai bordi.
In bagno erano apparsi asciugamani estranei, creme e lozioni mai viste, nuove scatole di pillole sullo scaffale.
La porta d’ingresso sbatté.
— Mamma, ho portato le altre cose! — chiamò Viktor dalla cucina.
Alena corse nel corridoio. Lui stringeva due borse; Larisa apparve radiosa.
— Alenochka! Che arrivo improvviso! Volevamo farti una sorpresa.
— Una sorpresa? — la voce le tremò. — È uno scherzo?
— Tesoro, volevo dirtelo stasera… — iniziò Viktor, posando le valigie.
— Dirti cosa? — fissò prima lui, poi Larisa. — Che vi siete trasferiti in casa mia senza chiedere?
— Non fare scenate — tagliò corto Larisa. — Siamo quasi famiglia. In famiglia si condivide.
Alena inspirò a fondo.
— Viktor, spiegami.
— Mamma ha problemi al riscaldamento, e poi presto sarà tua suocera. Ho detto sì. Saremo in tre, sarà… più allegro.
— Allegro? — Alena serrò i pugni. — Qualcuno mi ha chiesto se fossi d’accordo?
— Parliamo da adulti — intervenne Larisa. — La casa è grande, c’è posto per tutti. Io aiuto, cucino. Tu sei sempre al lavoro.
— Questo è il mio appartamento — disse Alena piano, ma con fermezza. — Decido io chi ci vive.
— Ma ci sposiamo a breve — provò Viktor. — Che differenza fa?
— Enorme — replicò lei. — Non ho mai accettato di convivere con tua madre.
Larisa scosse il capo.
— Che meschinità. Hai una casa costosa, una macchina, spendi tanto e ti pesa ospitare la madre del tuo futuro marito.
— Non è questione di soldi.
— Certo che lo è — insistette Larisa. — Sei egoista. Viktor fa tanto per te e tu…
— Basta. — La voce di Alena salì di un tono. — Viktor, rispondi: hai preso questa decisione senza di me?
Lui si dondolò da un piede all’altro.
— Pensavo non ti dispiacesse. Mamma ci serve in casa, risparmiamo…
— Risparmiare? — Alena spalancò gli occhi.
— Sì — aggiunse Larisa. — Controllerò le spese. Ho già fatto la lista per il mese prossimo.
Alena andò nella stanza, tirò giù due valigie e le lasciò cadere sul letto. Tornò in corridoio.
— In camera ci sono due trolley. Fai le valigie, Viktor.
— Cosa? — Lui rimase interdetto.
— Hai un’ora per lasciare il mio appartamento.
— Non puoi! — strillò Larisa. — Viktor, dì qualcosa!
— Alena, non essere drastica. Parliamone…
— Avremmo dovuto parlarne prima di portare tua madre qui senza il mio consenso. Ora è tardi.
— Sei egoista! — esplose Larisa. — Non meriti mio figlio!
— E tuo figlio, a quanto pare, non merita me — disse Alena, sfilando l’anello. — Tienilo, Viktor. Non sposo chi non rispetta i miei confini.
— Stai esagerando. E mia madre?
— Ha un appartamento. Portala a casa sua.
— Volevo fare la cosa giusta…
— Per chi? — fece Alena con un sorriso amaro. — Di certo non per me. Hai un’ora. Poi chiamo la polizia.
Si voltò e andò in cucina. Le mani tremavano, ma dentro si fece spazio una calma nuova. Aveva scelto, finalmente.
Poco dopo sentì rotolare valigie e il borbottio indignato di Larisa. Quaranta minuti più tardi, la porta si richiuse.
Alena restò sola. Si appoggiò al muro, si prese la testa tra le mani e pianse: non per dolore, ma per sollievo. Aveva fatto in tempo ad aprire gli occhi, a sciogliere il fidanzamento e a togliersi di dosso una famiglia che non voleva.