«Lena, ma ti sei bevuta il cervello?» La voce di Ira era una lama. «Lo sai benissimo che quei soldi mi servono per la Turchia!»
Ero chiusa in un camerino, con le luci fredde che non perdonano nulla e lo specchio che ti rimanda la verità senza filtri. Indossavo un vestito leggero, il primo che compravo per me dopo tre anni. Azzurro polvere, una pioggia di fiorellini discreti, la gonna morbida che mi sfiorava le ginocchia come un soffio d’aria.
«Ira, non ti devo niente», risposi piano, senza nemmeno girarmi.
«Ah no?» strillò. «E chi ha promesso che mi avrebbe aiutata? Chi predica sempre che la famiglia viene prima di tutto?»
La commessa fece finta di sistemare delle grucce, ma si capiva che ascoltava. Due clienti si fermarono vicino alla tenda, attratte dal teatrino come falene.
Inspirai lentamente. «Usciamo e ne parliamo fuori.»
«Col cavolo!» sbottò lei, battendo un piede come una ragazzina. «Togliti subito quello straccio e rimettilo a posto. Ridammi i miei soldi!»
Aprii la tenda e mi voltai. Nel riflesso, due sorelle: io con i capelli raccolti e un vestito semplice, lei impeccabile, manicure perfetta, borsa firmata a braccetto come una seconda identità.
«Non sono i tuoi soldi», dissi, calma. «Sono i miei.»
E quella frase, per lei, fu un insulto. Per me, fu un confine.
Tutto era cominciato sei mesi prima.
Io e Ira siamo sempre state opposte: io la maggiore, quella che calcola, stringe i denti e si prende addosso il peso. Lei la minore, brillante e impulsiva, convinta che la vita le debba qualcosa… possibilmente subito e in confezione regalo.
Quando a mamma diagnosticarono un problema al cuore e i medici parlarono di intervento urgente, non c’era spazio per i drammi: c’era solo da fare. Lavoro in ufficio di giorno, ripetizioni la sera. Spese ridotte all’osso. Niente caffè al bar, niente sfizi, niente “me lo merito”. Ogni euro finiva in un barattolo che avevo nascosto in alto, in cucina, come se potesse essere rubato anche dall’aria.
Ira “partecipava” a modo suo: sospiri, frasi tenerissime, lacrime a comando. Ma quando si parlava di soldi, spariva.
«Il mio stipendio è ridicolo», ripeteva. «Tu guadagni di più.»
Sì, guadagnavo di più perché mi spaccavo la schiena. E non bruciavo lo stipendio in rossetti di marca, serate e vestiti nuovi ogni mese.
In sei mesi avevo quasi raggiunto la cifra. Intervento fissato per agosto. Mancava l’ultimo tratto, la salita finale.
Poi arrivò giugno. E con giugno, Ira con gli occhi che brillavano.
«Lena, non ci crederai!» mi sventolò il telefono sotto il naso. Sullo schermo: mare turchese, piscina a sfioro, un resort che sembrava fatto apposta per far sentire povera la gente normale. «Kostya mi porta in Turchia! Due settimane, all inclusive. Capisci? Un sogno!»
«Bello», dissi, già facendo i conti nella testa.
«C’è solo un dettaglio… mi servono trentamila.»
Alzai lo sguardo, lentamente. «E tu… cosa pensi di fare?»
Ira piegò la bocca in un sorriso da supplica. «Pensavo… potresti aiutarmi. Ti prego. È un’occasione unica. Magari con Kostya è la volta buona, magari ci sposiamo.»
«Ira», scandii, «ad agosto mamma entra in sala operatoria.»
Lei sgranò gli occhi come se stessi complicando apposta le cose. «E allora? Il viaggio è a luglio. Fino ad agosto rimetti via di nuovo.»
Rimasi a fissarla, incredula. «Mi mancano ventimila per l’intervento. Se te ne do trenta, da dove li tiro fuori?»
Ira scrollò le spalle, come se stessi parlando di una pizza. «Li trovi. Fai un prestito. Chiedi a qualcuno. Tu sei capace, no?»
E lì capii che non era distrazione, non era ingenuità. Era una richiesta pulita, lucida: indebitati tu, così io mi abbronzo.
«No, Ira. Non posso.»
«Come non puoi? Sono tua sorella!»
«Proprio perché sei mia sorella: mamma viene prima.»
«Sempre mamma!» sbottò. «E io? Io non ho diritto a essere felice?»
«Certo che sì. Con i tuoi soldi.»
«Quali miei? Non ne ho!» alzò le mani in aria, teatrale.
«Allora risparmia. O fatteli dare da Kostya.»
La porta sbatté così forte che tremò il vetro del quadro in corridoio.
Nei giorni successivi mise in scena il suo capolavoro: messaggi ai parenti, sospiri davanti a mamma, frasi taglienti dette “per caso” mentre io ero nella stanza accanto.
«Lena è diventata fredda.»
«Lena pensa solo ai soldi.»
«Lena non ha cuore.»
Un pomeriggio mamma mi guardò con gli occhi stanchi. «Forse… potresti darle qualcosa? Ci tiene tanto.»
La guardai dritta. «Mamma, qui non si tratta di “dare qualcosa”. Qui si tratta di scegliere. Un intervento o una vacanza. Non esistono entrambe.»
Mamma abbassò lo sguardo. «Magari si rimanda a settembre…»
«Il medico è stato chiaro», dissi. «Aspettare è un rischio.»
Una settimana dopo Ira cambiò strategia: niente più urla, solo carezze e promesse.
«Te li ridò. Giuro.»
«Quando?»
«In autunno.»
«Di quest’anno?»
Lei esitò. «Forse del prossimo… dai, lo sai com’è…»
E mentre lo diceva aveva un rossetto nuovo e profumo costoso addosso, di quelli che ti restano nel naso anche dopo che la persona è uscita.
«Una donna deve presentarsi bene», liquidò la cosa.
«E nostra madre deve restare viva», risposi.
Intorno a me, intanto, tutti avevano un’opinione. Sempre facilissimo essere generosi con i soldi degli altri.
«Ma che ti costa?»
«Tu lavori, li rimetti via!»
«Non rovinare i rapporti per queste cose…»
Come se la parola “operazione” fosse un dettaglio fastidioso. Come se il mio barattolo fosse una cassaforte comune.
Poi arrivò la goccia.
Ira si presentò a casa con una borsa da quindicimila. Quando glielo chiesi, farfugliò: «Premio aziendale.»
Il giorno dopo incrociai una sua collega.
«Ira? Va alla grande. La sera fa la commessa in boutique. Gli extra pagano bene.»
Quella sera, seduta al tavolo della cucina, le dissi: «Lavori anche di sera.»
Lei impallidì. «Sì… e quindi?»
«Quanto prendi?»
Silenzio. Poi: «Ventimila al mese.»
Ventimila. In due mesi si sarebbe pagata il viaggio. Senza toccare mamma. Senza toccare me.
La guardai e chiesi la domanda che mi bruciava in gola: «Perché chiedi a me, allora?»
Lei mi fissò, e per la prima volta non recitò. «Perché usare i miei… se posso usare i tuoi.»
E fu lì che si ruppe qualcosa. Non dentro di lei: dentro di me.
«Basta, Ira. Da me non avrai più soldi.»
Lei spalancò la bocca. «Come sarebbe a dire?»
«Che lavori. Che spendi. Che ti organizzi. Io non finanzio più i tuoi capricci.»
«Ma siamo sorelle!»
«E allora è ora che tu cresca.»
Ci furono pianti, telefonate, prediche, morali. Ci fu perfino chi mi disse che ero “spietata”. Eppure, più provavano a piegarmi, più io sentivo di essere finalmente dritta.
A fine luglio chiamò l’ospedale: posto liberato, intervento anticipato.
Mamma mi prese la mano. «Lena… abbiamo i soldi?»
Le sorrisi. «Sì. È tutto pronto.»
E fu la prima notte, dopo mesi, in cui dormii senza svegliarmi con l’ansia addosso.
L’operazione andò bene. Una settimana e mamma era già in ripresa, con quella luce negli occhi che mi aveva fatto paura di perdere.
Ira, invece, partì lo stesso. Mise da parte in due mesi e volò in Turchia… ad agosto. E non con Kostya: nel frattempo lui aveva trovato un’altra “occasione unica” da portare al mare. Ira tornò abbronzata e furiosa col mondo, come se fosse stata tradita dal destino e non dalle sue scelte.
Poi riprese il solito disco: giacca nuova, corso di manicure, abbonamento in palestra.
«Lena, aiutami.»
«Cerca un secondo lavoro», rispondevo.
«Sono stufa!»
E un giorno, senza annunciarlo a nessuno, decisi che avrei comprato qualcosa per me. Una cosa piccola, ma mia. Quel vestito azzurro a fiori.
Ed eccoci di nuovo lì, in quel negozio. In quel camerino. Con Ira che urlava come se stessi rubandole la vita.
Uscii, sistemai l’orlo e alzai la testa. «Ho trent’anni. Pago l’affitto, mantengo me stessa, ho salvato mamma. Posso comprarmi un vestito.»
«Avevi promesso che mi saresti stata accanto!» singhiozzò.
«Non ho mai promesso di essere il tuo bancomat.»
«La famiglia è sacra!» gridò, alzando la voce apposta.
«Sì. E proprio per questo ho messo da parte i soldi per mamma. La famiglia è responsabilità. Non è scaricare i propri desideri sul primo che resiste.»
«Quindi i miei sogni sono capricci?»
«Se per realizzarli devo mettere a rischio la salute di nostra madre… sì.»
Mi avvicinai alla cassa. «Lo prendo.»
«Sei egoista!» urlò Ira.
La guardai, e la verità uscì senza rabbia. «O forse ho solo smesso di cancellarmi. Per anni ho scelto gli altri. Oggi scelgo me. E indovina? Il mondo non crolla.»
Pagai e uscii.
Lei mi rincorse fuori dal negozio. «Non volevo… non così.»
«Non sono arrabbiata», dissi. «Sono solo diversa. Non sono più la tua carta di credito.»
«Ma siamo sorelle…»
«Appunto. Tra sorelle non c’è dipendenza. C’è rispetto.»
Quella sera andai a cena. Da sola. Un tavolo vicino alla finestra. Una bistecca, un bicchiere di vino. E una calma nuova, pulita, come una stanza arieggiata dopo anni di fumo.
Il giorno dopo mi iscrissi a un corso di francese. La settimana dopo ripresi palestra. Poi arrivò un secondo vestito. E un terzo. Piccole scelte, una dopo l’altra, che costruivano una vita in cui non ero più l’ultima della lista.
Ira fece il muso per giorni. Poi bussò, una sera.
«Scusami», disse, guardando il pavimento. «Ho esagerato.»
Annuii. «Lo so.»
Fece un mezzo sorriso, già speranzosa. «Allora… mi presti per gli stivali invernali?»
Sorrisi anche io. «No, Ira.»
Lei sbuffò. «Perché?»
«Perché stai ancora aspettando che qualcuno ti salvi dalle tue urgenze. E finché lo aspetti, non crescerai mai.»
Passarono mesi. Non cambiò in una notte, ma cambiò davvero: più turni, una promozione, un monolocale. Ci vediamo meno, ma meglio. Niente ricatti. Niente mani tese. Solo parole normali, finalmente.
Io, intanto, ho aperto la mia pagina. Studio, viaggio, ballo. E ho incontrato qualcuno che non mi valuta in sacrifici, ma in presenza. Che non mi chiede di spegnermi per brillare lui.
Ogni tanto ripenso a quel camerino. Se avessi rimesso quel vestito sul gancio, forse oggi sarei ancora lì a contare monete, rimandando me stessa a “quando sarà il momento”.
Invece no.
Adesso, quando qualcuno mi dice “Dai, aiutami”, io sorrido con gentilezza. «Mi dispiace. Non sono uno sportello bancomat.»
E vado a scegliere qualcosa che mi assomigli.