— Hai di nuovo quella faccia da funerale. Forse è il caso che ti faccia visitare lo stomaco da uno bravo — ironizzò Maria senza nemmeno girarsi. Stava tritando la cipolla per l’insalata; la mano le tremò e il coltello cadde sul tagliere con un colpo secco.
— Mi stai ascoltando? — Aleksej si avvicinò e appoggiò i palmi sul tavolo. Molli, proprio come i suoi tentativi di sembrare deciso.
— Stavolta cosa c’è? — Maria si asciugò le dita sull’asciugamano e si voltò verso di lui. — Non dirmi che ti serve un’altra “sciocchezza” per tua madre.
— Sì. Una sciocchezza. Quindicimila. Lei…
— Per cosa, stavolta? Manicure deluxe? O deve “riprendersi dallo stress” in qualche spa a Sochi? — incrociò le braccia. Nella sua voce non c’era rabbia, solo una stanchezza pesante, appiccicosa come l’odore di fritto ormai assorbito dalle tende.
— Ha un prestito, Masha! Non riesce a pagarlo! — sbottò Aleksej, con una fiammata di coraggio che si spense subito.
— Il prestito l’ha firmato lei, quindi se lo paga lei. Io non sono il suo bancomat, e tu non sei la sua tata. Se ti piace fare avanti e indietro tra due donne, complimenti: hai trovato il mestiere perfetto, “tra incudine e padella”.
— Non capisci niente. È mia madre. Lei…
— E io chi sono, allora? Un POS con buon punteggio in banca? — fece un passo verso di lui. — Da gennaio lavoro su due turni, te lo ricordi? Metto da parte per comprarmi la macchina. È il mio obiettivo, non il suo fondo d’emergenza per le maratone nei centri commerciali con borsa nuova ogni mese.
Aleksej si lasciò cadere sulla sedia, coprendosi il volto con le mani.
— Sei spietata, Mash. Ha sessant’anni.
— Appunto. E si comporta come se ne avesse sedici e un papà pronto a pagarle tutto. E “ho sessant’anni” non significa ordinare sushi tutte le sere e poi piangere che “gli interessi mi stanno strozzando”.
— Ha avuto una vita difficile…
— Aleksej, hai un passaporto, sei sposato e vivi in un appartamento dove non hai investito un rublo. E adesso, nella mia cucina, vuoi farmi passare tua madre come “la povera vittima” e me come la strega col registratore di cassa?
Lui scattò in piedi.
— Siamo punto e a capo. Guardati: hai tutto programmato, persino il sesso del martedì.
— Già. E solo se tua madre non chiama con “una questione urgente”. L’ultima urgenza era il link di un aspirapolvere.
— Perché il suo si è rotto! — urlò.
Maria scoppiò a ridere. Ma non era una risata allegra: era il suono esasperato di chi ha esaurito le forze.
— Dimmi la verità, Lesha: ti sei sposato con me o con lei?
Lui tacque.
Il silenzio, in quella casa, era diventato la risposta standard.
Maria guardò il fornello. Il bollitore ribolliva da un pezzo. Il vapore saliva verso il soffitto come le loro discussioni: sempre più caldo, sempre più soffocante.
— Non le darò nemmeno un rublo, Lesha. Né quindicimila, né cinquemila. Zero. Quello che risparmio è per la macchina. Sono stufa di tornare dal turno di notte in corriera e farmi respirare nell’orecchio da sconosciuti ubriachi.
— È egoismo — mormorò lui, ormai con la voce spenta.
— No, è crescere. L’egoismo è quando una donna adulta fa debiti per cosmetici e cene fuori sapendo che poi il figlio andrà a fare il giro delle suppliche dalla moglie.
Rimase in mezzo alla cucina come chi ha perso qualcosa di importante. Non le chiavi. Qualcosa di più: uno sguardo, una fiducia.
— E se glieli dessi io? — sussurrò. Come se chiedesse: “Così mi perdoneresti?”.
— Allora fai le valigie e vai da lei. Neanche bisogno di telefonare. Vai direttamente.
Non rispose. Le labbra gli si strinsero, come per trattenere parole inutili.
Quella notte lui dormì sul divano in soggiorno. Lei in camera. Tra i due non c’era una porta: c’era un abisso fatto di risentimento, debiti e progetti mai decollati.
Per la prima volta in sei anni Maria non mise la sveglia. Che se la vedesse il domani da solo.
Aleksej fissava il soffitto. Sul comodino il telefono vibrò: messaggio di “Mamaccia”.
— «Allora, com’è Mashka? Mica sarà morta di rabbia?»
Non rispose. Ma le dita gli tremarono.
Perché per la prima volta in sei anni capì quale fosse il debito vero. E con chi.
Il sabato iniziò con lui alle prese con il porridge.
Ne uscì qualcosa che Maria avrebbe definito “miscela per intonacare i muri”. Lei non uscì dalla camera. Rimase sdraiata, fissando il soffitto, come se aspettasse un’insegna luminosa: “Manuale di istruzioni per convivere con un uomo che teme sua madre più del fisco”.
Aleksej si avvicinò alla porta come uno scolaretto in punizione.
— Maria… — mormorò, spalancando appena. — Ho fatto colazione. Ne vuoi un po’?
— Se ci hai messo dentro le tue argomentazioni, lascio perdere — rispose lei calma, senza girarsi.
Lui sospirò e si sedette sul bordo del letto. La luce grigia del mattino entrava in stanza timida, come se il cielo avesse arretrati da saldare.
— Ascolta… mamma è nei guai grossi. Stavolta sul serio.
— Lei è “nei guai grossi” ogni volta che io metto a fuoco un progetto — Maria si tirò su, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. — Hai notato? Ogni volta che comincio a pianificare qualcosa, a lei si rompe qualcosa: dente, frigo, cuore, non importa. È come se ricevesse l’estratto conto dei miei risparmi in tempo reale.
— Esageri — fece una smorfia lui.
— Esagero? Ripassiamo. Due anni fa volevo fare un corso: si è “ammalata”. Sei mesi fa aprivo la partita IVA: le è saltato il freezer. Adesso voglio comprarmi la macchina: di nuovo martire del sistema. E chi paga? Noi. Cioè io.
— Non è così lineare — balbettò. — Non ha nessuno, ci siamo solo noi.
— Non ha nessuno perché li ha consumati tutti a bordo del suo piroscafo emotivo — Maria guardò fuori dalla finestra. — Le amiche sono scappate: ascoltare il monologo sul “figlio ideale” è più narcotico delle gocce. I parenti si sono dileguati: si ricorda ancora quando rubava i lamponi al vicino “per fare esperimenti con gli innesti”. E tu continui a vederla come la poverina perseguitata.
— Tu non capisci — esplose. — Mi ha cresciuto da sola! Senza marito! Si è spaccata la schiena!
— E adesso pretende la pensione integrativa a vita da noi — la voce di Maria si fece tagliente. — E io cosa sarei, il conto di riserva?
— Stai esagerando — ripeté lui, sconfitto.
— No, Lesha. Tu non sei un marito. Sei un corriere espresso: consegni soldi e scuse. Io non ci sto più. Non sono la seconda donna di casa. Nella vita di un uomo può esserci una sola donna al primo posto. Tu ne hai due: una nel letto e una dall’altra parte del telefono.
— Mi stai mettendo davanti a un ultimatum?
— Sto mettendo un punto. Dare una mano va bene. Mettendo però i suoi capricci davanti ai nostri progetti e tu che le tieni il sacco… in quel caso io non sono una moglie. Sono una comparsa.
Aleksej abbassò lo sguardo. Non era furioso: era vuoto. Abituato a una vita in cui decideva prima sua madre, poi Maria. Lui scivolava tra l’una e l’altra. Adesso affondava.
— Le parlerò — disse infine.
— È tardi — Maria scosse le dita in aria, come per liberarsele da una sostanza appiccicosa. — Ho già detto che da me non vedrà un centesimo. E se, dopo tutto questo, le manderai dei soldi, per me sarà chiarissimo.
Lui annuì, con il peso delle colpe a mo’ di sciarpa. In corridoio si infilò il cappotto.
— Vado. Provo a farle entrare qualcosa in testa.
Maria non rispose. Lo guardò mentre si allacciava la giacca piano, con il passo di chi ha capito che non si può più stare seduti su due sedie.
Arrivò da sua madre verso mezzogiorno. Una vecchia kruščëvka al secondo piano. Già sulle scale l’aria sapeva di gatto e cipolle bollite.
— Oh, guarda chi è venuto a degnarsi — Elena Petrovna lo accolse in vestaglia fiorata, bigodini e il solito rossetto acceso. Rosso, come la sua inamovibile convinzione di avere sempre ragione.
— Mamma, dobbiamo parlare — esordì lui senza neanche togliersi il cappotto.
— Che c’è, quella Mashka ti ha tirato le orecchie? Ah, scusa, “Maria” — ghignò. — Che signora! Io non le ho mai mancato di rispetto: è lei che ti tratta come uno straccio.
— Mamma, basta. Non posso continuare a chiedere soldi a mia moglie solo perché tu sei costantemente in debito.
— “Mia moglie”, “mia moglie”… se potesse si prenderebbe pure le mie calze dal cassetto, quella lì!
— Ti parlo seriamente.
— E io no? Io ti ho messo al mondo, ricordalo. E ora tu ti inchini a quella… lagna viziata?
Lui la guardò come si guarda una sconosciuta. Lei urlava, minacciava, recitava lo stesso copione di sempre. Solo che questa volta, sotto la sua voce, sentiva il vuoto.
— Non ti darò i soldi — disse lentamente, ma senza esitazioni. — E non li chiederò a nessuno al posto tuo.
Lei rimase zitta un attimo.
Poi lo schiaffeggiò. Non fu una carezza, ma nemmeno una sceneggiata.
— Ingrato. Mezzo uomo — sputò.
Aleksej si voltò e se ne andò. Per la prima volta in vita sua, senza girarsi a guardarla.
Quando tornò, fuori era già buio. Maria stava bevendo il tè al tavolo.
Si tolse il cappotto e le si avvicinò.
— Non le ho dato i soldi — disse soltanto.
— E lei ti ha mandato al diavolo? — chiese lei, senza alzare il tono.
— Sì.
— Ottimo — si alzò. — Benvenuto nel mondo degli adulti.
Lui la osservò come se la vedesse davvero per la prima volta, intera, non solo come sfondo delle sue indecisioni.
— Voglio cambiare tutto — mormorò.
— Allora comincia da te, Lesha. Non dai debiti di tua madre.
Se ne andò in camera. Lui rimase in cucina, solo con un silenzio che, per la prima volta, non faceva male. Era pulito.
La domenica Maria si svegliò presto. Profumo di caffè e pane appena scaldato: Lesha si era mosso in punta di piedi, come per non spaventare la fragile tregua del giorno prima.
Le mise davanti una tazza.
— Con lo zucchero. Come la prendi tu.
Lei lo fissò. Le sembrò quasi un estraneo: non il compagno con cui aveva diviso bollette, letto e infinite discussioni sul tasso di cambio.
— Oggi vado da Igor — disse lui. — Gli chiedo un consiglio. Non le darò soldi, su questo non torno indietro. Ma devo capire come se la caverà.
— Perché dovresti? — appoggiò la tazza. — È grande. I casini se li è costruiti da sola, se li risolve. È questo essere adulti.
— Non riesco a tagliare completamente…
— Io sì — si alzò. — Perché non ho tredici anni e non devo guadagnarmi l’approvazione di nessuno: né di tua madre, né del condominio.
Lui rimase in silenzio.
Maria gli si avvicinò.
— Sono stanca di essere la terza ruota nella tua vita. Tu appartieni a tua madre. Le appartieni da sempre. Perfino in luna di miele la chiamavi tre volte al giorno.
— Lo so… — sussurrò.
— No, Lesha. Tu non ami: hai paura. E io non rimarrò con un uomo che ha paura di tutto.
Lui si sedette, con lo sguardo fisso sul pavimento, le spalle curve.
— Non voglio perderti.
— E io non voglio perdere me stessa — Maria prese la giacca dall’appendiabiti. — Me ne vado.
— Dove vai?
— A casa mia.
Lui non fece altre domande. Per la prima volta. Niente tragedie, niente accuse. Solo un cenno. Aveva capito.
Una settimana dopo, Maria affittò un monolocale vicino alla metro. Nessun design da rivista, ma un cortile sotto la finestra e, soprattutto, aria. I primi giorni beveva tè in bicchieri di carta e dormiva su un materasso appoggiato a terra. Si sentiva meglio di quanto si fosse sentita negli ultimi due anni.
Lesha le scrisse. Calmo, senza drammi.
«Sto andando da uno psicologo. Voglio capire cosa mi succede. Non so dove mi porterà, ma voglio cambiare.»
Lei non rispose subito. Ci pensò.
Scrisse anche Elena Petrovna: un papiro su come quella “Mashka” avesse rovinato suo figlio, “rendendolo meno uomo”, e immancabile morale finale sulla generazione di oggi: “Siete tutti egoisti”. Alla fine, un post scriptum:
— «Fai come ti pare. Ma non credere che io dimentichi.»
Maria sorrise.
E non rispose. Non doveva giustificarsi con nessuno.
Due mesi dopo entrò in un negozio per comprare delle lampadine. Alla porta c’era Lesha, con un mazzetto di fiori di campo avvolti nella carta marrone. Niente rose, fiori semplici.
— Ciao — disse. — Volevo solo ringraziarti.
— Di cosa? — chiese lei, sorpresa.
— Per aver scelto te stessa. Se non lo avessi fatto, io sarei rimasto il bamboccione di mamma. E adesso…
Si interruppe.
— E adesso chi sei? — domandò Maria, socchiudendo gli occhi alla luce.
— Adesso sto imparando a essere un uomo. Senza mamma che mi detti la vita. Senza salvatori. Solo… me stesso.
— Allora buona fortuna, Lesha — indicò i fiori. — Regalali a te. Per il coraggio.
E se ne andò. Lampadine, scontrino, busta.
E dentro, finalmente, luce. Senza i debiti di mamma, senza scenate a qualunque ora del giorno. Solo lei.
Quella che per anni arrancava in cerca d’aria.
Adesso, finalmente — respira.