Tatiana arrivò alla festa di compleanno della suocera con quaranta minuti d’anticipo e restò pietrificata: da dietro la porta le giunse qualcosa di così assurdo da sembrare irreale.

Tatiana era sempre stata una donna puntuale. E quel sabato, più di qualunque altro, non poteva permettersi di arrivare tardi: Galina Petrovna compiva sessant’anni.

La madre di Sergej aveva un’idea molto chiara del mondo: chi arriva in ritardo è maleducato, chi si giustifica è colpevole due volte. Tatiana lo sapeva bene. Perciò era uscita con largo anticipo, calcolando traffico, semafori, deviazioni e quell’inevitabile imprevisto che, quando non lo metti in conto, si presenta con la puntualità di un ospite sgradito.

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Solo che quella volta la città sembrava averle fatto un favore: le strade erano insolitamente libere e, in un lampo, si ritrovò davanti al portoncino dei Petrovna con quaranta minuti di anticipo.

Aveva in mano un mazzo di peonie, profumate e morbide, e sotto il braccio una scatola rigida color avorio con un nastro sottile: un servizio da tè che lei e Sergej avevano scelto insieme dopo settimane di ricerche, confronti e compromessi.

Tatiana sollevò la mano per suonare.

Poi si fermò.

Da dentro arrivava un brusio strano. Non il vociare allegro di una festa che sta per cominciare: era un suono teso, tagliato, come una conversazione serrata. E quando tese l’orecchio, le parole si distinsero nitide, una dopo l’altra, come coltelli sul tagliere.

— Mamma, non puoi continuare a trattarla così! — La voce di Sergej, di solito calma, aveva un’irritazione ruvida.

Tatiana sentì le spalle irrigidirsi. Lui non alzava quasi mai la voce. Se lo stava facendo, doveva essere arrivato al limite.

— Io dico soltanto la verità, tesoro — rispose Galina Petrovna, con quel tono dolcissimo che sapeva di zucchero e veleno insieme. — Cinque anni di matrimonio e ancora niente nipoti. Dimmi tu di cos’altro dovremmo parlare.

Tatiana sbiancò. Istintivamente strinse più forte i gambi delle peonie, finché le dita non le fecero male.

— È una questione che riguarda me e Tatiana — replicò Sergej, fermo. — Te l’abbiamo già spiegato: vogliamo prima sistemarci, finire i lavori in casa…

— Scuse! — lo troncò la madre. — Ai miei tempi si facevano figli con molto meno. Ma la tua Tatiana pensa solo alla carriera. E una donna che vive per il lavoro… che madre vuoi che sia?

Un calore improvviso le montò alle guance. Sì, avevano rimandato. Ma non era soltanto per la casa o per gli impegni.

Da un anno, in silenzio, tra visite, analisi e sale d’attesa con le pareti color pesca, rincorrevano risposte che non arrivavano. E ogni volta che Galina lanciava quelle frecciate, Tatiana ingoiava e sorrideva, come se bastasse l’educazione a proteggersi.

— Tatiana sarà una madre meravigliosa — disse Sergej, senza un’increspatura. — E ti chiedo di finirla con i commenti alle sue spalle.

— Alle sue spalle? — rise Galina, secca. — Gliel’ho detto in faccia più di una volta. Conosce benissimo il mio pensiero.

— Lo conosce, sì — sospirò Sergej. — E ogni volta se ne va da qui con gli occhi tristi, anche se fa di tutto per non fartelo vedere.

— Troppo sensibile — sbuffò la suocera. — Non è come Larisa.

Tatiana si gelò.

Larisa.

Il nome dell’ex di Sergej le arrivò addosso come una spinta. Non perché temesse un ritorno — quella storia era finita da tempo — ma perché Galina sapeva sempre dove colpire per far male.

— Non ricominciare — la interruppe lui, stanco. — È finita sette anni fa. Ora io sono felice con Tatiana.

— E a quest’ora avresti già tre figli — insistette Galina, ostinata. — Larisa voleva una famiglia numerosa. Cucinava meglio. Era più docile…

— Mamma! — la voce di Sergej diventò tagliente. — Amo Tatiana. È mia moglie. E non permetterò a nessuno, nemmeno oggi, di mancarle di rispetto.

Seguì un attimo di silenzio. Un silenzio breve, ma così carico che Tatiana ebbe paura di respirare. Rimase immobile sul pianerottolo, con il cuore che le batteva in gola e il timore assurdo che il parquet scricchiolasse come nei film.

— Sergej ha ragione, mamma — intervenne una voce femminile, calma ma decisa.

Natalia.

La sorella di Sergej.

Tatiana non sapeva fosse già lì.

— Sei ingiusta con Tatiana — continuò Natalia. — È una donna splendida. E mio fratello sta bene con lei. Non dovrebbe essere questo l’unico punto?

— Non insegnarmi come trattare la mia nuora — ribatté Galina, piccata. — Non è adatta alla nostra famiglia. Sempre in giro per lavoro, quei modi da cittadina… Che padrona di casa può essere?

— Una padrona di casa perfetta — rispose Sergej, senza esitazione. — E molto più di questo. È intelligente, gentile, paziente. Soprattutto considerando quello che deve sopportare ogni volta che viene qui.

— Oh, per favore — la liquidò Galina. — Io con lei sono sempre cortese.

E fu in quel momento che arrivò una voce che Tatiana non si aspettava.

— Cortese? — disse Pavel Ivanovič, il padre di Sergej, di solito silenzioso e defilato. — Galia, non prendiamoci in giro: non l’hai mai accettata. E non ti sforzi nemmeno di nasconderlo.

Tatiana chiuse gli occhi per un istante. Sentire suo suocero prendere posizione le fece un effetto quasi fisico, come se qualcuno avesse improvvisamente tolto peso da un nodo che portava da anni.

— Anche tu contro di me, Pasha? — scattò Galina. — Io voglio solo che mio figlio abbia una famiglia normale, non questa… “partnership paritaria”, come la chiamano oggi.

— È esattamente la famiglia che voglio — disse Sergej. E la sua voce, stavolta, era più bassa. Più vera. — E io sono felice. Perché ti è così difficile accettarlo?

— Perché ti ha cambiato — ammise Galina, e per la prima volta Tatiana sentì una nota diversa: non solo cattiveria, ma anche amarezza. — Prima venivi sempre, aiutavi alla dacia, nei lavori… Ora avete sempre da fare.

— Mamma, ho trentatré anni — rispose Sergej, piano. — Ho una famiglia. È normale.

— Normale dimenticarsi dei genitori?

— Nessuno vi ha dimenticati — sospirò lui. — Vi chiamiamo, passiamo, ma abbiamo i nostri impegni.

— Specialmente Tatiana con il suo lavoro “importante” — rimbeccò Galina. — L’ho sentita al telefono fino a tardi con un certo Mikhail. Molto presa, direi.

Tatiana si portò una mano alla bocca, come se potesse trattenere un suono. Mikhail era il suo capo. Un progetto, telefonate, scadenze. Galina stava alludendo a… a cosa, esattamente?

— Mamma! — esplose Sergej. — Hai superato ogni limite. Mikhail è il suo superiore. Tatiana è una professionista stimata. E io ne sono fiero!

— Sei ingenuo — sospirò Galina. — Le donne che passano troppo tempo al lavoro…

— Basta — la voce di Pavel fu netta. — È il tuo compleanno, Galia. Non trasformiamo la festa in un processo. Tatiana è la moglie di nostro figlio. Merita rispetto. Punto.

Seguirono rumori di stoviglie, un cucchiaino che batteva contro una tazza. La tensione, almeno, sembrava essersi spostata.

— Va bene — concesse infine Galina, risentita. — Fate come vi pare. Ma quando le cose andranno male, non dite che non vi avevo avvisati.

— Tatiana mi ama — disse Sergej, più piano, e in quelle parole c’era una stanchezza che fece male anche a chi ascoltava. — E io amo lei. Vorrei solo che le persone a cui tengo di più imparassero a volersi bene.

— Ci ho provato — borbottò Galina. — Ma lei è… distante. Sempre quel sorriso educato, mai una vera emozione.

Tatiana si sentì pizzicare dalla colpa. Era vero: spesso si rifugiava nella cortesia. Non perché fosse fredda, ma perché aveva paura che, se avesse mostrato davvero quanto soffriva, sarebbe stata la fine.

— Forse il problema è che non le hai mai dato una possibilità — disse Natalia, dolce. — Quando si avvicina, tu la respingi.

— Non è vero!

— Il tono, Galia — osservò Pavel. — Tu non ti rendi conto di come le parli.

— E allora? — sbottò Galina. — Dovrei fingere che sia perfetta?

— No — rispose Sergej. E per la prima volta Tatiana lo sentì sorridere, anche solo con la voce. — Dovresti provare a conoscerla. A vederla come la vedo io.

Ci fu un sospiro. Il rumore di una sedia spostata.

— D’accordo — disse Galina, come se stesse firmando una resa. — Per te, ci proverò. Ma anche lei dovrà venirmi incontro.

— Grazie, mamma — il sollievo nella voce di Sergej era palpabile.

Tatiana rimase ferma ancora un secondo, con il cuore che le faceva male in modo strano: perché era dolore, sì, ma anche qualcosa che somigliava alla speranza.

Poi prese fiato.

E suonò.

Dentro calò il silenzio, come se qualcuno avesse spento l’audio di colpo. Passi rapidi, la serratura che girava, e la porta si aprì.

Sergej comparve sulla soglia con un’espressione tesa che, non appena la vide, si sciolse in un sorriso quasi colpevole.

— Sei in anticipo — disse, e le diede un bacio, come a dimostrarle che non stava succedendo niente.

— Ho pensato di dare una mano — rispose lei, con voce più naturale possibile.

Entrò.

Natalia la abbracciò subito, Pavel le fece un cenno caldo come un invito sincero. Infine apparve Galina Petrovna: impeccabile, elegante, trucco perfetto, quella postura da regina che non perde mai il controllo.

— Tatiana — disse con il suo solito sorriso composto. Ma, per la prima volta, Tatiana lo percepì meno duro. — Sempre puntuale.

Tatiana porse le peonie e la scatola.

— Buon compleanno, Galina Petrovna. Questi fiori mi hanno fatto pensare al vostro giardino. E spero che il regalo vi piaccia.

Negli occhi della suocera passò un lampo fugace: sorpresa, forse. Poi una crepa minuscola nella rigidità.

— Grazie… cara — mormorò. E quella volta non suonò come una frase recitata. — Vieni, stiamo finendo di apparecchiare.

La cena, con stupore di tutti, scivolò via senza spine. Niente frecciatine, niente allusioni, niente domande invasive. Tatiana continuava a trattenere il respiro, come se da un momento all’altro dovesse tornare la solita tempesta. Ma non arrivò.

Quando fu il momento del tè, Galina scartò il regalo.

Appena vide la porcellana, il decoro sottile, rimase immobile con la carta ancora tra le dita.

— Questo motivo… — sussurrò, sfiorando il bordo della tazza. — È identico al servizio di mia nonna. Si ruppe tanti anni fa.

Tatiana ingoiò un sorriso timido.

— Sergej me ne aveva parlato. Abbiamo cercato a lungo qualcosa di simile.

Galina sollevò lo sguardo, e per un attimo non parve più una suocera severa, ma una donna sorpresa di essere stata ricordata.

— Te ne sei ricordata davvero?

— A Pasqua dello scorso anno lo avete raccontato voi — disse Tatiana. — Mi è rimasto impresso.

Si creò un silenzio buono. Pavel propose di inaugurare subito il servizio, Natalia portò la torta. E mentre le tazze si riempivano di tè ambrato, Galina si avvicinò a Tatiana con una cautela che non le apparteneva.

— Forse… — disse piano — non sono stata una buona suocera.

Tatiana si immobilizzò. Quell’ammissione, da Galina, era più rara di una nevicata in agosto.

— Ognuno ha i propri difetti — rispose, prudente.

— Non addolcirmi per educazione — accennò un sorriso Galina, piccolo ma vero. — Sono stata ingiusta. Ma non è facile lasciar andare l’unico figlio.

Tatiana, per la prima volta, scelse di non nascondersi.

— Io non ho mai voluto portarlo via — disse. — Ho solo desiderato… far parte della vostra famiglia. Davvero.

Galina la guardò come se la stesse vedendo per la prima volta.

— E dei bambini… — iniziò, poi esitò. — Sergej mi ha detto che non ci state pensando?

Tatiana deglutì. La verità le stava in gola da un anno.

— In realtà li desideriamo moltissimo — ammise. — Ma abbiamo incontrato delle difficoltà. Da più di un anno facciamo esami.

Negli occhi di Galina si allargò qualcosa che non era giudizio: era stupore. E, subito dopo, un’ombra di dolore.

— Perché non me l’avete detto?

— Non volevamo farvi preoccupare — rispose Tatiana. — Soprattutto voi.

— Me? — Galina parve spiazzata.

— So quanto siano importanti i nipoti per voi. Non volevo deludervi.

Galina rimase zitta. Poi, con un gesto che fece tremare Tatiana più di tutte le discussioni ascoltate dietro la porta, le prese la mano.

— Anche per noi non fu semplice. Sergej è arrivato dopo quattro anni. All’epoca non si parlava di certe cose… ma si cercavano strade. Se vuoi, posso raccontarti cosa ci aiutò.

Tatiana sentì gli occhi pizzicare.

— Mi farebbe piacere — disse, sincera.

Da lontano Sergej le osservava, incredulo. Si avvicinò, con quella faccia da bambino che non vedevi spesso.

— Di cosa complottate?

— Affari da donne — lo liquidò Galina con una dolcezza nuova. — Non intrometterti.

Tatiana sorrise. E in quel sorriso non c’era più soltanto educazione: c’era un filo di pace.

La serata, a poco a poco, cambiò ritmo. Le parole non erano più spade. Si parlò di ricordi, di ricette, di vecchie fotografie. E Tatiana, che per anni aveva attraversato quella casa come se fosse un terreno minato, si ritrovò a respirare senza paura.

Al momento dei saluti, Galina la strinse in un abbraccio vero, forte, quasi testardo.

— Tornate il prossimo fine settimana — disse. — Ho le ricette di mia nonna. Ti insegnerò le sue torte.

— Con piacere — rispose Tatiana. E per una volta, nessuna delle due stava recitando una parte.

In macchina, tornando a casa, Sergej non riuscì a trattenersi.

— Che cosa è successo tra voi? Non ho mai visto mamma così.

Tatiana guardò fuori dal finestrino, le luci che scivolavano veloci.

— Diciamo che… ci siamo ascoltate davvero — disse soltanto.

Sergej le strinse la mano.

— Non sai quanto lo desiderassi.

Tatiana annuì, senza aggiungere altro. Non raccontò del discorso sentito dietro la porta, delle frasi che avevano fatto male e del coraggio che aveva trovato lì, sul pianerottolo. A volte certi segreti non si confessano: si trasformano, e basta.

E il fine settimana dopo tornarono davvero. Tatiana varcò quella soglia con un passo diverso — non più da ospite che si difende, ma da persona che, finalmente, sta entrando in famiglia.

Perché a volte bastano quaranta minuti. Quaranta minuti, una porta chiusa… e le parole giuste, dette nel momento sbagliato, per cambiare anni di distanza.

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