Nina non aveva più un approdo. Nessun indirizzo da digitare sul telefono, nessun posto dove poter dire “questa è casa mia”.
«Al massimo posso passare la notte in stazione… e poi?» pensava, sentendo la gola stringersi.
All’improvviso un pensiero le attraversò la mente, come un lampo: «La casetta in campagna! Come ho fatto a dimenticarla?»
“Casetta” era una parola grossa: in realtà si trattava di una costruzione mezza cadente, più baracca che casa. Ma era pur sempre meglio dei sedili duri di una stazione ferroviaria.
Salì su un treno suburbano, si appoggiò al vetro gelido del finestrino e chiuse gli occhi. I ricordi degli ultimi anni la assalirono tutti insieme. Due anni prima aveva perso entrambi i genitori; da quel momento, il mondo si era ristretto a una solitudine silenziosa. I soldi per l’università non c’erano più e Nina aveva dovuto abbandonare gli studi e mettersi a lavorare al mercato.
Quando ormai aveva smesso di aspettarsi qualcosa dalla vita, era comparso Tomas: gentile, premuroso, onesto, o almeno così pareva. Un amore arrivato come una carezza inaspettata. In pochi mesi si erano sposati con una cerimonia semplice, senza fronzoli. Per un po’ era stato davvero come se il destino avesse cambiato idea su di lei.
Poi Tomas le aveva proposto di vendere l’appartamento ereditato dai genitori per avviare un’attività comune. Le parlava di stabilità, di crescita, di futuro costruito insieme. Nina, accecata dall’amore e dalla fiducia, non aveva esitato un secondo.
«Quando saremo sistemati, penseremo a un bambino…» si vedeva già con un figlio tra le braccia.
L’impresa però era crollata in poco tempo. I litigi sui soldi erano diventati sempre più violenti, più frequenti. Finché un giorno Tomas era rientrato a casa con un’altra donna… e l’aveva messa alla porta.
Aveva pensato di andare alla polizia, ma cosa avrebbe potuto dire? Era stata lei stessa a vendere la casa e a consegnargli il denaro. Legalmente, non c’era niente.
Quando il treno si fermò, Nina scese nella piccola stazione quasi deserta. Era l’inizio della primavera: la campagna sembrava ancora addormentata, i campi pieni di rovi secchi e terra umida.
«Non fa niente, la sistemerò. Tornerà come prima» si promise, pur sapendo che niente, ormai, era più “come prima”.
Sotto la vecchia veranda trovò la chiave dov’era sempre stata, ma la porta risultò mezza divelta. Provò a spingerla, a strattonarla, ma non si muoveva. Stremata, si lasciò cadere sui gradini e scoppiò a piangere.
Fu allora che vide un filo di fumo levarsi dal terreno accanto alla casa. Si alzò di scatto e si avvicinò, aggrappandosi alla speranza di trovare qualcuno. Lì, nel cortile, un uomo anziano e trasandato stava tentando di accendere un fuoco.
— Ruth, sei tu? — chiamò, ma la voce le morì in gola. L’insicurezza la fermò a qualche passo di distanza.
L’uomo si voltò lentamente.
— Non abbia paura — disse con tono pacato. — Non sto facendo nulla di male. Non entro in casa, mi fermo solo qui fuori, nel cortile…
Parlava con una calma e una gentilezza che stonavano con l’aspetto consumato.
— È… un senzatetto? — azzardò Nina, incerta.
— Sì, si può dire così — annuì lui. — Mi chiamo Miguel Fernandez. E lei vive qui vicino? Non si preoccupi, non le darò fastidio.
Confusa, ma colpita dal suo modo di fare, Nina finì per raccontargli del problema con la porta. Miguel si offrì di aiutarla: in pochi minuti, con qualche colpo ben assestato e un po’ di esperienza, riuscì ad aprirla.
Dentro, l’aria sapeva di umido e di chiuso. Le pareti sporche, i mobili coperti di polvere, il freddo che entrava da ogni fessura. Nina si chiese come avrebbe potuto trascorrere anche solo una notte in quel posto. Ma Miguel tornò poco dopo con un fascio di legna, sistemò la stufa, aggiustò ciò che poteva e accese il fuoco. Il calore cominciò ad allontanare il gelo, e con esso la sensazione di essere completamente abbandonata.
A cena, davanti a un pasto messo insieme alla meglio e al crepitio della stufa, Nina ascoltò la storia di quell’uomo. Per tutta la vita era stato professore universitario, finché l’unica nipote, Tatiana, non l’aveva convinto a vendere la casa. Si era fatta intestare i soldi, promettendo che glieli avrebbe amministrati… e poi era sparita. Da allora Miguel viveva in strada.
— Nonostante tutto, non perda la speranza — le disse con un sorriso stanco, ma sincero. — Lei è giovane. Ha ancora davanti a sé mille strade da percorrere.
Se quelle parole fossero arrivate da chiunque altro, forse Nina le avrebbe liquidate con un’alzata di spalle. Ma sentirle pronunciare da un uomo che aveva davvero perso tutto, le entrò dritto nel cuore.
Miguel si spinse oltre: si offrì di scrivere a un suo vecchio collega, un rettore, per aiutarla a rientrare all’università. Nina lo fissò, gli occhi lucidi. Uno sconosciuto, con nulla in tasca, le stava porgendo l’unica vera occasione di ricominciare.
— Non se ne vada stanotte, la prego — mormorò. — Ho paura di restare qui da sola. Resti… scelga pure una stanza.
Miguel le rivolse un sorriso appena accennato.
— Non la lascerò sola — assicurò.
Passarono due anni.
Nina aveva concluso con successo gli esami finali e quel giorno era tornata in campagna a trovarlo. Ora viveva in città, studiava, lavorava, ma ogni fine settimana cercava di ritagliarsi il tempo per raggiungerlo.
— Nininha! — la salutò Miguel aprendo le braccia, appena la vide sulla soglia. — Perché non mi hai avvisato? Sarei venuto io a prenderti in stazione!
— Volevo farti una sorpresa — rise lei, sollevando la scatola nella mano. — Ho portato una torta per festeggiare il tuo compleanno!
Si sedettero davanti alla stufa, come la prima sera, ma tutto era diverso. La casa, ora, era ordinata, calda, viva. Tra una fetta di torta, una tazza di tè e i racconti della settimana, Miguel le parlava delle vigne che sperava di sistemare, di piccoli progetti per il cortile, di panchine da costruire all’ombra del vecchio albero.
Non aveva più l’aria di un uomo sconfitto: nei suoi gesti, nel tono, c’era la pace di chi aveva ritrovato un senso, una “famiglia”.
Per Nina, nel tempo, Miguel era diventato il padre che la vita le aveva tolto troppo presto. E, seduta accanto a lui in quella casa che prima chiamava “baracca”, capì una cosa dolorosa e dolce allo stesso tempo: il destino le aveva strappato molto, ma, in un modo tutto suo e imprevedibile, le aveva restituito ancora di più.